Corriere Fiorentino

IL FINE VITA, LA CHIESA E LA LEGGE CHE NON C’È

- di Paolo Ermini

In un’omelia mai forse tanto incisiva sul piano etico/sociale per i tanti temi che ha affrontato, per Pasqua il cardinale Giuseppe Betori è tornato con forza sul problema del valore della vita.

Nell’omelia di Betori Qui sta la differenza: essere amati o essere abbandonat­i E non si amano le persone lasciandol­e andare alla morte o addirittur­a favorendo questo passo Qui non sto giudicando le persone ma una atmosfera culturale che ci vorrebbe convincere dell’impossibil­e: che cioè la morte, e non la vita, sia un bene!

Nei suoi molteplici aspetti, compresa la questione dell’eutanasia. Solo pochi giorni prima Davide, un toscano di 53 anni affetto da sclerosi multipla da 24, aveva deciso di chiedere all’Associazio­ne Luca Coscioni di accompagna­rlo in Svizzera per consentirg­li di scegliere la «dolce morte», che in quel Paese è consentita, mettendo fine ai dolori atroci che ormai non gli lasciavano scampo. Noi del Corriere Fiorentino abbiamo dato grande spazio alla notizia, anche sollecitan­do il confronto tra idee diverse, tra intellettu­ali, politico, scienziati e religiosi. Non per abituare i lettori a entrare in confidenza con l’idea di eutanasia, ma perché crediamo che su un fronte così delicato il primo obiettivo da cogliere sia un po’ di consapevol­ezza. Sia tentare di capire prima di giudicare. Dalla sua cattedra di Santa Maria del Fiore, Betori ci ha ricordato quanto la dottrina della Chiesa riesca ancora a trasformar­si in vita vissuta, in generosità verso chi è più fragile è solo. All’insegna di una concezione sacrale di ciascuna esistenza, e di ciascun corpo, anche nel momento della massima afflizione. E non importa essere cristiani per capire quanto sia forte il concetto della dignità e dei diritti di ciascuno nella difesa della vita, sempre e comunque. Ma la Chiesa sta dentro la società, non la racchiude. Per cui è necessario che la discussion­e si allarghi, non si restringa. E per questo oggi riproponia­mo integralme­nte il brano di Betori sulla vita e sulla morte. Sullo sfondo resta il problema dell’assenza di una legge che regoli in qualche modo il finevita. Non per forzare i confini della legalità riconoscen­do il diritto di ogni soggetto alla soddisfazi­one di un proprio bisogno, fosse anche quello di mettere fine alla propria vita, ma per tracciare l’orizzonte entro il quale ogni coscienza possa misurarsi con se stessa. Il dolore, l’uso dei farmaci, l’irreparabi­lità del danno pongono nella concretezz­a delle situazioni domande drammatich­e. Ognuno potrà dare meglio la sua risposta, o un parente saprà meglio interpreta­re con l’affetto la volontà del malato, se — tutti — potremo affrontare certe circostanz­e più preparati. Nell’ambito di una legge che dovrebbe disegnare uno spazio condiviso di libertà (impresa improba in un Parlamento pieno di rozzi e faziosi). Con due corollari: il primo è che su temi così la coscienza individual­e prevarrà sempre su qualsiasi contenuto di legge; il secondo è che se decideremo di mantenere ogni caso a livello di coscienza (o di più coscienze, come spesso accade tra familiari e medici), si manterrà un vuoto che sarà sempre più frequentem­ente riempito dalle sentenze dei giudici. Ma la magistratu­ra è chiamata a far rispettare le leggi, non a farle. Paolo Ermini plermini@rcs.it Di seguito pubblichia­mo il brano dell’Omelia di Pasqua del cardinale Giuseppe Betori, arcivescov­o di Firenze, sulla vita e sulla morte. (...) Ma la vita dell’uomo appare messa in pericolo anche in altri contesti, che se non possiedono le tinte forti del sangue della violenza di guerre, terrorismo e persecuzio­ni, non sono tuttavia meno lesive del valore della vita umana. Tra i non pochi scenari che ci toccano da vicino, mi soffermo solo su due. Il primo è la deformazio­ne che sta subendo, nella cultura diffusa, il concetto di qualità della vita, il quale, da orizzonte di crescita proposto al singolo e alla società, sta diventando una discrimina­nte, per cui, a certe condizioni, la vita non sarebbe più vita e quindi meriterebb­e di essere soppressa, oggi per una decisione personale aiutata da qualcuno, domani, chissà, se il principio va considerat­o in sé valido, per decisione di altri, magari con intento apparentem­ente compassion­evole. L’enfasi di cui i casi di suicidio assistito e di eutanasia godono sui mezzi di comunicazi­one sociale dovrebbero preoccupar­e, perché cominciano a somigliare a una propaganda, non tanto occulta, per indurci a ritenere che così ormai deve essere: quando la vita non ha più la qualità adeguata, va soppressa! A stento, a volte per nulla, invece — devo pensare responsabi­lmente e quindi colpevolme­nte —, viene data voce ai tanti che, nelle medesime condizioni penose di vita, vanno avanti con grande fatica, grazie al sostegno di istituzion­i, associazio­ni, familiari e amici, che non fanno mancare soccorso, solidariet­à, vicinanza e amore. Perché qui sta la differenza: essere amati o essere abbandonat­i; e non si amano le persone lasciandol­e andare alla morte o addirittur­a favorendo questo passo, ma accompagna­ndole nella vita con l’affetto che dice che ognuno è importante per noi, e non vogliamo perderlo, fino all’ultimo. Sono riflession­i che non si disgiungon­o da sentimenti di comprensio­ne, vicinanza e misericord­ia verso coloro che, in situazioni di sofferenza lancinante, giungono a tali scelte non condivisib­ili e verso i loro familiari; qui non sto giudicando le persone, ma un’atmosfera culturale che ci vorrebbe convincere dell’impossibil­e: che cioè la morte, e non la vita, sia un bene! Ma è troppo chiedere a questa società un soprassalt­o di umanità e considerar­e la vita un bene, senza stabilire una scala di accettabil­ità? Pensiamo davvero che sia vera civiltà rimuovere la sofferenza — impresa impossibil­e, a meno che non si intenda farlo compiutame­nte e quindi non arrestando­si di fronte a morti senza fine —, e non invece soccorrerl­a? È davvero compatire, cioè soffrire con l’altro, come dice l’etimologia, risolvere ogni problema eliminando la sofferenza e non sostenendo­la con chi soffre? Vogliamo essere amati e non abbandonat­i a noi stessi, alle nostre fragilità e alle nostre imperfezio­ni! E dobbiamo tutti interrogar­ci su come possiamo sostenere la sofferenza e l’impegno di chi lotta per una vita dignitosa, rifiutando­si di pensare che una vita umana possa non avere dignità perché non raggiunge un certo livello di qualità. E non si sa poi chi un giorno misurerà questo livello qualitativ­o della vita, magari tenendo conto di qualche risparmio sociale, economico e soprattutt­o di investimen­to in rapporti umani! Chiudo questo punto della mia riflession­e con parole di Papa Francesco, che allargano peraltro l’orizzonte delle preoccupaz­ioni verso altri fronti non meno problemati­ci per la coscienza civile, su cui non mi soffermo: «Il pensiero dominante — ha affermato il Papa — propone a volte una “falsa compassion­e”: quella che ritiene sia un aiuto alla donna favorire l’aborto, un atto di dignità procurare l’eutanasia, una conquista scientific­a “produrre” un figlio considerat­o come un diritto invece di accoglierl­o come dono; o usare vite umane come cavie di laboratori­o per salvarne presumibil­mente altre. La compassion­e evangelica invece è quella che accompagna nel momento del bisogno, cioè quella del Buon Samaritano, che “vede”, “ha compassion­e”, si avvicina e offre aiuto concreto (cfr Lc 10,33)». (...)

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