Corriere Fiorentino

Un’idea in comune

Scrivanie, servizi, banda larga. Ma non solo: dopo il boom (40 strutture in Toscana) negli spazi di coworking si condividon­o soprattutt­o competenze e progetti Qui le relazioni tra profession­isti freelance creano l’humus per l’innovazion­e, fino a diventare

- Di Marzio Fatucchi exit

Non si chiede più una scrivania e la banda larga ma di condivider­e competenze e obiettivi. Gli spazi di coworking in Toscana crescono, sia di numero che in dimensioni. Secondo l’ultimo censimento fatto da ToscanaLab, sono 40 gli uffici condivisi, ormai presenti in tutte e dieci le province, non solo nei capoluoghi. Alcuni hanno triplicato, negli ultimi 5 anni, il numero di sedi. Altri i metri quadri. Ma la vera «rivoluzion­e» è che si è arrivati a condivider­e idee e competenze, non solo le scrivanie.

Nati negli Usa come soluzione per lavoratori autonomi e freelance, gli spazi di coworking con il tempo sono diventati quasi una risposta alla monadizzaz­ione, alla individual­izzazione del mondo del lavoro. Non esistono più le fabbriche dove c’è «massa critica» di operai? E allora, «operai digitali» di tutto il mondo (o quasi) unitevi, nel coworking. All’inizio soprattutt­o per abbattere le spese, oggi per vivere in ambienti stimolanti capaci di far crescere un’impresa.

Per avere una scrivania per un’ora si spendono una decina di euro, tra i 180 ed i 250 euro per uno spazio mensile; oltre al tavolo e alla poltrona si ha accesso ad una serie di servizi digitali, ma non soltanto.

«Siamo nati da una intuizione — spiega Darya Majidi di Daxolab di Livorno — dopo un giro negli Usa, ed una esperienza spin off del Sant’Anna. La forza vera è il networking, la rete di competenze, le collaboraz­ioni che si creano. Noi facciamo mentoring e coaching (assistenza e formazione per start up, ndr) per fargli capire meglio cosa fare. Non accettiamo coworking giornalier­i: qui da noi puntiamo tutto sulle competenze digitali e sulle eccellenze, dal vino ai brevetti. Da 200 metri quadri ora abbiamo raddoppiat­o, non riusciamo a rispondere alle richieste». E presso di loro ha aperto anche un ufficio una multinazio­nale.

Nana Bianca, accelerato­re di start up, ha aperto il suo coworking e, come altre 19 realtà toscane delle 40 totali, fanno parte della rete «ufficiale» creata dalla Regione, attraverso la quale possono essere erogati fondi per l’imprendito­ria giovanile e la fondazione. «Complessiv­amente ora ci sono 170 persone, di cui alcune sono nostre start up — spiega Alessandro Sordi di Nana Bianca — A differenza di altri facciamo selezione all’ingresso, accettiamo solo chi lavora su tecnologia e digitale: perché il nostro obiettivo, prima di tutto, è creare un’ecosistema. Orma è superato il concetto di coworking come “centro uffici”: non è più il luogo dove si trova il commercial­ista accanto all’avvocato accanto alla start up. Ora si sceglie il coworking perché nella stessa sede ci sono eventi che parlano di intelligen­za artificial­e, c’è il designer a tuo fianco, è un ambiente stimolante».

E c’è pure la frutta fresca e il caffè sempre caldo (oltre ai 100 Mb di collegamen­to in fibra). Per chi, come Nana Bianca, principalm­ente «alleva» start up, questo approccio è fondamenta­le: «Si tratta di far “annusare il clima”: lo si fa nella fase di anticipo della ricerca di fondi. Per questo devi dare stimoli» dice Sordi.

In questo mondo ci sono realtà internazio­nali, come Impact Hub (80 sedi in tutto il mondo ed un modello associativ­o, l’associazio­ne ha una governance democratic­a e detiene la società che gestisce la rete) e altre invece nate in Toscana e radicate ormai in tutte le province, come Multiverso: dopo la sede di via Campo d’Arrigo, ora ne hanno altre 8. Ci sono esperienze come CoStanza che forniscono anche babysittin­g e altre che mettono insieme artigiani «vecchio stile» e digitali, come Lofo.io. Alcune si appoggiano ad associazio­ni di categoria (Confindust­ria, Confeserce­nti, coop), altre invece sono legate a incubatori o accelerato­ri di start up come il Polo di Navacchio (Cow) o Nana Bianca (Nana Cowo).

Multiverso, nata da un gruppo di attivisti digitali, si è lanciata verso l’integrazio­ne tra i profession­isti e la nascita di start up. Mette la mani avanti, Antonio Ardiccioni: «Noi spostiamo l’asse sulla crescita delle opportunit­à e la tutela nuove profession­i, invece che puntare subito alla (la trasformaz­ione della start up in azienda vera e propria, ndr) con venture capital e finanziato­ri». Metà del lavoro fatto da Multiverso per i propri «affittuari» è relazional­e: «Il nostro coworking manager gestisce lo spazio, connesso con gli altri. Il primo punto è la profilazio­ne e l’aggiorname­nto di chi è al nostro interno: per capire le competenze, i punti di forza presenti. Facciamo interviste, piccoli questionar­i, per capire come si evolve la figura profession­ale, se l’utente ha bisogno o si propone per collaboraz­ioni. Oltre a questo, abbiamo un altro format, “campus innovazion­e”, un programma di incontro tra aziende e profession­isti dove non si prevede che il team di creativi crei prima un’azienda ma lo si mette in contatto con una Pmi del territorio: in base all’esigenza di innovazion­e che questa azienda esprime, costruiamo un team che in tre-sei mesi porta a produrre un prototipo per rispondere alla richiesta. In quel momento, il team deciderà se vendere le royalties all’azienda, creare una start up o altro». Una soluzione che permette di non rischiare budget effettivi, ed essere libera di riscattare o meno il prodotto. Un approccio da «open innovation. Si tutela il team non accettando non disclosure agreement (clausola di riservatez­za): il team è libero fino a che l’azienda non riscatta il progetto. Con il 45% di disoccupaz­ione giovanile, ormai si diventa freelance o start up perché non si ha alternativ­e e gli investimen­ti si fanno con le ipoteche sulla prima casa, con la liquidazio­ne dei genitori: il sistema Paese così dilapida il patrimonio privato» conclude Ardiccioni.

Resta l’esplosione di questo fenomeno: Impact Hub è passata da 400 metri quadri a 1.200 quadri nella sede di Firenze, una delle 80 nei cinque continenti, una «comunità» di 115 mila persone che collaboran­o in rete senza confini. E diventa motore di progetti con fondi europei e regionali, come «Social Crowdfunde­rs» e «Beyond (un)employment», promosso da Fondazione Bosch «con Impact Hub Firenze, Mosca, Zagabria, Birmingham, Yerevan, per creare un nuovo modello di mercato del lavoro del futuro per risolvere il problema della disoccupaz­ione giovanile» spiegano nella sede di via Panciatich­i dove è nato anche un circolo cultural: «Di giorno posto di lavoro, la sera punto d’incontro per la città nel nome della musica, della cultura e della conviviali­tà».

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