UNA PROPOSTA PER SANT’ORSOLA
Ecosì finalmente sarà riempita una delle tante scatole vuote che una politica non sempre perspicace di decentramento ha regalato a Firenze. E riempita non dal solito museo o dall’ennesimo albergo, ma dall’insieme di funzioni culturali che il progetto Bocelli ha prospettato.
Sant’Orsola è stata monastero, manifattura, luogo di lavoro delle tabacchine che Pratolini elesse a eroine del più lutulento dei suoi romanzi, Lo scialo. È stato un grande parallelepipedo murato fonte di degrado, caserma mancata della Finanza, oggetto di un esasperante rimpallo fra enti locali e demanio statale, fra faldoni burocratici e qualche bugia (non a caso si trova a pochi passi dalla casa natale del padre di Pinocchio...). Fra una funzione e una disfunzione, Sant’Orsola è stata anche luogo di espiazione e di dolore. Fra le sue mura dove uggiva l’umidità dell’abbandono furono ospitati i profughi istriani, fiumani e dalmati dopo il grande esodo seguito alla ratifica del trattato di pace. Terrorizzati dall’etnocidio delle foibe e dalla ferocia dei titini, 350 mila italiani del litorale adriatico abbandonarono le città rese belle e prospere dalla colonizzazione veneziana, i palazzi e le chiese su cui campeggiava il Leone di San Marco e cercarono rifugio nella madrepatria. Ma era un’Italia povera, avvilita, divisa quella che diede loro accoglienza. Un’Italia devastata dalle mine tedesche e dai bombardamenti angloamericani, che non aveva mezzi per dare un tetto e un pasto quotidiano a quegli scomodi nuovi arrivati.Questa Italia accolse a Firenze i profughi adriatici. Li accolse fra le mura fatiscenti di Sant’Orsola, in claustrali campate dove l’unica riservatezza era offerta dalle coperte militari con la greca appese al fil di ferro per dividere gli spazi dei nuclei familiari. I profughi non protestarono: il tasso di criminalità al loro interno fu minimo. La maggior parte si inserì fattivamente nella vita civile della città, guidati da una figura carismatica come don Luigi Stefani. Purtroppo, una Firenze distratta ne dimentica spesso il contributo e fra le loro stesse seconde o terze generazioni comincia a calare l’oblio. Il complesso di Sant’Orsola, grande spazio in cerca d’autore, potrebbe riservare almeno una stanza al museo dell’esodo e del Ricordo: una foto brunita dal tempo, o magari una valigia e un orsacchiotto di panno abbandonati per salire su un treno, come nel Magazzino 18 del Porto di Trieste. Sarebbe bello se, colmato il buco nero di Sant’Orsola, venisse colmato anche un grande buco nero della nostra memoria.