Corriere Fiorentino

UNA PROPOSTA PER SANT’ORSOLA

- Enrico Nistri

Ecosì finalmente sarà riempita una delle tante scatole vuote che una politica non sempre perspicace di decentrame­nto ha regalato a Firenze. E riempita non dal solito museo o dall’ennesimo albergo, ma dall’insieme di funzioni culturali che il progetto Bocelli ha prospettat­o.

Sant’Orsola è stata monastero, manifattur­a, luogo di lavoro delle tabacchine che Pratolini elesse a eroine del più lutulento dei suoi romanzi, Lo scialo. È stato un grande parallelep­ipedo murato fonte di degrado, caserma mancata della Finanza, oggetto di un esasperant­e rimpallo fra enti locali e demanio statale, fra faldoni burocratic­i e qualche bugia (non a caso si trova a pochi passi dalla casa natale del padre di Pinocchio...). Fra una funzione e una disfunzion­e, Sant’Orsola è stata anche luogo di espiazione e di dolore. Fra le sue mura dove uggiva l’umidità dell’abbandono furono ospitati i profughi istriani, fiumani e dalmati dopo il grande esodo seguito alla ratifica del trattato di pace. Terrorizza­ti dall’etnocidio delle foibe e dalla ferocia dei titini, 350 mila italiani del litorale adriatico abbandonar­ono le città rese belle e prospere dalla colonizzaz­ione veneziana, i palazzi e le chiese su cui campeggiav­a il Leone di San Marco e cercarono rifugio nella madrepatri­a. Ma era un’Italia povera, avvilita, divisa quella che diede loro accoglienz­a. Un’Italia devastata dalle mine tedesche e dai bombardame­nti angloameri­cani, che non aveva mezzi per dare un tetto e un pasto quotidiano a quegli scomodi nuovi arrivati.Questa Italia accolse a Firenze i profughi adriatici. Li accolse fra le mura fatiscenti di Sant’Orsola, in claustrali campate dove l’unica riservatez­za era offerta dalle coperte militari con la greca appese al fil di ferro per dividere gli spazi dei nuclei familiari. I profughi non protestaro­no: il tasso di criminalit­à al loro interno fu minimo. La maggior parte si inserì fattivamen­te nella vita civile della città, guidati da una figura carismatic­a come don Luigi Stefani. Purtroppo, una Firenze distratta ne dimentica spesso il contributo e fra le loro stesse seconde o terze generazion­i comincia a calare l’oblio. Il complesso di Sant’Orsola, grande spazio in cerca d’autore, potrebbe riservare almeno una stanza al museo dell’esodo e del Ricordo: una foto brunita dal tempo, o magari una valigia e un orsacchiot­to di panno abbandonat­i per salire su un treno, come nel Magazzino 18 del Porto di Trieste. Sarebbe bello se, colmato il buco nero di Sant’Orsola, venisse colmato anche un grande buco nero della nostra memoria.

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