QUANDO SCOPRÌ IL CARCERE DURO, DALLO SPIONCINO
Credo fosse la sua prima intervista a un giornale laico e nazionale, anche se era un piccolo settimanale, Vita, nato da poco per iniziativa di Riccardo Bonacina. Il neo-presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, allora, era da neppure un anno vescovo di Massa Marittima e Piombino, dopo aver a lungo diretto il Seminario minore e poi quello Maggiore, a Firenze, dove era diventato prete. Avevo saputo, non ricordo più da chi, che don Gualtiero, come lo chiamavano molti amici comuni, fosse rimasto molto colpito dalla realtà carceraria, conosciuta per via dei due penitenziari che si trovavano nella sua diocesi, Porto Azzurro all’Elba e Pianosa. Era l’autunno del 1995. Proposi la notizia al giornale, con cui collaboravo proprio da Firenze, perché il carcere era un tema di cui Vita voleva occuparsi programmaticamente. Bassetti non si negò, anche perché c’erano molte amicizie comuni, a partire da quella del suo compagno di seminario don Silvano Seghi, e poi perché avevo collaborato a lungo, e ogni tanto lo facevo ancora, con ToscanaOggi, il settimanale delle diocesi toscane. Ricordo una lunga chiacchierata telefonica, in cui Bassetti mi raccontò la scoperta dell’universo carcerario. E se a Porto Azzurro c’erano gli ergastolani (nel 1987, con la rivolta capeggiata da Mario Tuti e Lorenzo Bozano, il biondino della spider rossa, si sfiorò la tragedia) ma si trattava tutto sommato di un carcere «normale», a Pianosa lo Stato aveva reimpiantato un penitenziario di massima sicurezza, dopo le stragi mafiose del ‘93.
In quell’isola Bassetti scoprì i detenuti sottoposti al regime durissimo, il 41 bis. «Che impressione», mi raccontò, «ho parlato con le persone attraverso un spioncino quadrato, di 10 centimetri per lato». Bassetti mi parlò la sua commozione nel trovare detenuti che cercavano un conforto, o semplicemente un dialogo, mentre altri, sdegnosamente, non rispondevano neppure al saluto «du previti». Un prete che fino a ieri aveva insegnato ad altri preti a stare al mondo e a guadagnarsi il paradiso — e non ce n’era uno che non ne portasse nel cuore insegnamenti e grande umanità — e che ora entrava in un girone infernale.
Leggendo, in questi giorni, i vaticanisti che ricordano il profilo di pastore dell’arcivescovo di Perugia, ho pensato che Bassetti abbia imparato a pascere le sue pecore, proprio superando posti di controllo e mettendo la faccia allo sportello di una porta blindata, come fece molte volte, per parlare a dei criminali veri, di quelli che scioglievano i bambini nell’acido. Nessuno può dire se qualche picciotto di Cosa nostra rimase colpito da quel prete di mezza età e dall’eloquio rotondamente toscano. Qualcuno, se è uscito o se uscirà, potrebbe ricordarsi di quegli occhi che lo guardavano dentro, dicendogli probabilmente le cose dette da Gesù a Zaccheo che, nella Gerico dell’anno 30, un po’ capo-mafia lo era. Un ideale «vengo a casa tua», oltre le sbarre e il male di cui ognuno è capace. L’articolo occupò una pagina intera, con le foto del vescovo assieme a un giovane detenuto, ammalato di Aids, di Porto Azzurro che, in carcere, aveva ritrovato la fede e col quale era iniziato un dialogo fecondo. Pochi giorni dopo, Bassetti mi spedì un biglietto di ringraziamento, pieno di parole affettuose per me e la mia famiglia, cui assicurava la sua preghiera. Incorniciato, ci ha seguito per vari traslochi. Nell’intestazione, il suo stemma episcopale che recitava: In Charitate fundati, «rafforzati dalla Carità». Quando lo scelse, all’atto della nomina, don Gualtiero non aveva probabilmente immaginato quanto uno dei gesti caritatevoli più difficili, elevato da Cristo a beatitudine nel Discorso della montagna, ossia visitare i carcerati, lo avrebbe rafforzato come prete e come vescovo.
A Pianosa Che impressione, mi disse: ho parlato con le persone attraverso un quadrato di 10 cm