Nel pallone Club-comunità, manager e stadi: il calcio estero
DOSSIER TRA CUORE E BUSINESS
Nel calcio italiano la distanza tra cuore (tifosi) e business (presidenti) si sta sempre più allargando. E per reciproche responsabilità. Ma cosa succede negli altri campionati europei? Il passo indietro di Andrea Della Valle («per il bene della Fiorentina») dopo le continue contestazioni degli ultras ha lasciato più di un dubbio sulla possibilità di gestire al meglio un club senza la voce diretta del padrone.
Eppure — a guardare gli esempi di altri Paesi Uefa — l’importanza di avere una proprietà che garantisca conti solidi (e in regola) è proporzionale alla scelta oculata di manager in grado di dare valore a ogni aspetto dell’attività di una società di calcio (stadio di proprietà, marketing, merchandising, diritti tv, sponsor). In questo contesto diventa più semplice anche gestire l’aspetto identitario ed emozionale, tanto caro ai tifosi. La Premier League è il faro di tutti i grandi campionati, quello che ha un appeal internazionale imbattibile. Qui il ruolo dei presidenti è sempre stato marginale per l’opinione pubblica, per un semplice motivo: sono gli allenatori, manager, che gestiscono la campagna acquisti e che si prendono poi tutte le responsabilità dell’andamento di una stagione. E il management? Serve per controllare i conti e le infrastrutture (di proprietà) e per garantire al tecnico il budget che farà sognare, o imprecare, i tifosi.
Si capisce subito quanto sia lontano tutto ciò dalla serie A. Questo, però, non evita critiche più o meno aspre. Nel caso dell’Arsenal e di Arsene Wenger, fresco di rinnovo e di vittoria della Fa Cup, i supporter se la sono presa con lui così come con la dirigenza che continuava e continua a ritenerlo l’allenatore migliore per il proprio progetto. Anche se non hanno mai abbandonato le 60 mila poltroncine dell’Emirates Stadium (i Gunners con il nuovo stadio hanno portato i ricavi dai 63,8 milioni dell’ultimo anno ad Highbury ai 134,6 attuali).
Molti presidenti della Premier League sono stranieri e una cosa l’hanno capita tutti, senza soldi e senza la partecipazione dei tifosi in stadi all’altezza non si può fare calcio ad alti livelli. C’è poi la questione dei settori giovanili d’avanguardia, tesoro di pochi (un caso simbolo è quello del Chelsea di Abramovich). Un altro aspetto, generalmente poco considerato, è che ogni club inglese, grande o piccolo che sia, rappresenta una comunità (elemento che si può riscontrare anche in Spagna e in Germania) e ha un rapporto stretto col territorio (spesso rappresentato da un quartiere di una grande città) che lega il tifo in una continuità temporale. In Italia la distanza tra i club e i tifosi è abissale, a parte l’assalto all’ultimo selfie con i giocatori che arrivano all’allenamento. Negli ultimi anni poi si sono diffusi i supporters’ trust, ovvero società gestite dai tifosi. Emblematica la storia del Portsmouth (ora in League One) che dopo alcune vicissitudini aveva optato per quella soluzione salvo tornare indietro, vendendo le proprie quote a un danaroso gruppo locale, che sta risalendo le categorie del calcio, consapevole che a certi livelli l’entusiasmo, il volontariato e un budget risicato non bastano.
In Spagna, dove alla fine si parla sempre e solo di Barcellona e Real Madrid, il ruolo del presidente è legato ai risultati come quello dell’allenatore. Le elezioni sono vere e proprie campagne elettorali, si scontrano filosofie economiche, gestionali e sportive, dove ci si fronteggia a suon di contratti con questo piuttosto che con l’altro tecnico. Il calcio spagnolo, tra debiti e fondi d’investimento, non è proprio un modello e la diarchia Madrid-Barcellona tiene banco su media e opinione pubblica. Vincere, però, non basta perché se la conduzione societaria non è oculata e trasparente la poltrona che salta è proprio quella del numero uno, come dimostrano le storie di Calderon col Real e di Laporta e Rosell col Barça. Una figura poco conosciuta è quella di Jean-Michel Aulas, presidente dell’Olympique Lione dal 1987 e uno dei fondatori del fair play finanziario. Ha investito nel marketing, ha portato la squadra, senza buttare via soldi, tra le grandi d’Europa e ha vinto sette campionati consecutivi, frutto di una gestione oculata ed equilibrata, tra campo e banca. Perché il management conta, ma conta anche l’habitat, cioè le regole che un sistema si è dato per continuare a prosperare o, almeno, per stare a pieno titolo nella modernità, quella che i tifosi italiani vorrebbero solo quando si tratta di acquistare Messi.