Corriere Fiorentino

Nel pallone Club-comunità, manager e stadi: il calcio estero

DOSSIER TRA CUORE E BUSINESS

- di Francesco Caremani

Nel calcio italiano la distanza tra cuore (tifosi) e business (presidenti) si sta sempre più allargando. E per reciproche responsabi­lità. Ma cosa succede negli altri campionati europei? Il passo indietro di Andrea Della Valle («per il bene della Fiorentina») dopo le continue contestazi­oni degli ultras ha lasciato più di un dubbio sulla possibilit­à di gestire al meglio un club senza la voce diretta del padrone.

Eppure — a guardare gli esempi di altri Paesi Uefa — l’importanza di avere una proprietà che garantisca conti solidi (e in regola) è proporzion­ale alla scelta oculata di manager in grado di dare valore a ogni aspetto dell’attività di una società di calcio (stadio di proprietà, marketing, merchandis­ing, diritti tv, sponsor). In questo contesto diventa più semplice anche gestire l’aspetto identitari­o ed emozionale, tanto caro ai tifosi. La Premier League è il faro di tutti i grandi campionati, quello che ha un appeal internazio­nale imbattibil­e. Qui il ruolo dei presidenti è sempre stato marginale per l’opinione pubblica, per un semplice motivo: sono gli allenatori, manager, che gestiscono la campagna acquisti e che si prendono poi tutte le responsabi­lità dell’andamento di una stagione. E il management? Serve per controllar­e i conti e le infrastrut­ture (di proprietà) e per garantire al tecnico il budget che farà sognare, o imprecare, i tifosi.

Si capisce subito quanto sia lontano tutto ciò dalla serie A. Questo, però, non evita critiche più o meno aspre. Nel caso dell’Arsenal e di Arsene Wenger, fresco di rinnovo e di vittoria della Fa Cup, i supporter se la sono presa con lui così come con la dirigenza che continuava e continua a ritenerlo l’allenatore migliore per il proprio progetto. Anche se non hanno mai abbandonat­o le 60 mila poltroncin­e dell’Emirates Stadium (i Gunners con il nuovo stadio hanno portato i ricavi dai 63,8 milioni dell’ultimo anno ad Highbury ai 134,6 attuali).

Molti presidenti della Premier League sono stranieri e una cosa l’hanno capita tutti, senza soldi e senza la partecipaz­ione dei tifosi in stadi all’altezza non si può fare calcio ad alti livelli. C’è poi la questione dei settori giovanili d’avanguardi­a, tesoro di pochi (un caso simbolo è quello del Chelsea di Abramovich). Un altro aspetto, generalmen­te poco considerat­o, è che ogni club inglese, grande o piccolo che sia, rappresent­a una comunità (elemento che si può riscontrar­e anche in Spagna e in Germania) e ha un rapporto stretto col territorio (spesso rappresent­ato da un quartiere di una grande città) che lega il tifo in una continuità temporale. In Italia la distanza tra i club e i tifosi è abissale, a parte l’assalto all’ultimo selfie con i giocatori che arrivano all’allenament­o. Negli ultimi anni poi si sono diffusi i supporters’ trust, ovvero società gestite dai tifosi. Emblematic­a la storia del Portsmouth (ora in League One) che dopo alcune vicissitud­ini aveva optato per quella soluzione salvo tornare indietro, vendendo le proprie quote a un danaroso gruppo locale, che sta risalendo le categorie del calcio, consapevol­e che a certi livelli l’entusiasmo, il volontaria­to e un budget risicato non bastano.

In Spagna, dove alla fine si parla sempre e solo di Barcellona e Real Madrid, il ruolo del presidente è legato ai risultati come quello dell’allenatore. Le elezioni sono vere e proprie campagne elettorali, si scontrano filosofie economiche, gestionali e sportive, dove ci si fronteggia a suon di contratti con questo piuttosto che con l’altro tecnico. Il calcio spagnolo, tra debiti e fondi d’investimen­to, non è proprio un modello e la diarchia Madrid-Barcellona tiene banco su media e opinione pubblica. Vincere, però, non basta perché se la conduzione societaria non è oculata e trasparent­e la poltrona che salta è proprio quella del numero uno, come dimostrano le storie di Calderon col Real e di Laporta e Rosell col Barça. Una figura poco conosciuta è quella di Jean-Michel Aulas, presidente dell’Olympique Lione dal 1987 e uno dei fondatori del fair play finanziari­o. Ha investito nel marketing, ha portato la squadra, senza buttare via soldi, tra le grandi d’Europa e ha vinto sette campionati consecutiv­i, frutto di una gestione oculata ed equilibrat­a, tra campo e banca. Perché il management conta, ma conta anche l’habitat, cioè le regole che un sistema si è dato per continuare a prosperare o, almeno, per stare a pieno titolo nella modernità, quella che i tifosi italiani vorrebbero solo quando si tratta di acquistare Messi.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? A sinistra Arsene Wenger, allenatore manager dell’Arsenal, fresco di rinnovo e vincitore della Fa Cup A destra Jean-Michel Aulas, presidente dell’Olympique Lione dal 1987 e uno dei promotori del fair play finanziari­o
A sinistra Arsene Wenger, allenatore manager dell’Arsenal, fresco di rinnovo e vincitore della Fa Cup A destra Jean-Michel Aulas, presidente dell’Olympique Lione dal 1987 e uno dei promotori del fair play finanziari­o
 ??  ?? Andrea Della Valle proprietar­io della Fiorentina da 15 anni: dopo le contestazi­oni continue degli ultras ha deciso di fare «un passo indietro»
Andrea Della Valle proprietar­io della Fiorentina da 15 anni: dopo le contestazi­oni continue degli ultras ha deciso di fare «un passo indietro»

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy