Racket finanziato con la droga di San Salvi La seconda vita di Simonetta con Jabranne
Così il tunisino capo dei pusher e la moglie fiorentina gestivano il traffico di uomini dalla Tunisia
Con la montagna di soldi che guadagnavano spacciando a San Salvi riuscivano a finanziare il racket dei migranti dalla Tunisia portati in Italia con gommoni superveloci per eludere i controlli. È questa la pista su cui stanno muovendo le loro indagini gli inquirenti dell’antimafia di Palermo che sospettano che su quei gommoni invisibili possano essere transitati anche jihadisti. Tutto il sistema era retto da Jabranne Ben Cheikh, già a Sollicciano, e la moglie fiorentina Simonetta Sodi, 55 anni, tre figlie e una seconda vita interrotta con l’arresto.
«Eseguo gli ordini di Jabranne. A lui devo rendere conto dei soldi, a lui devo presentare il resoconto delle spese che sostengo per tutti, comprese le spese dell’avvocato». È la la stessa moglie di Jabranne, il regista del traffico di migranti dalla Tunisia all’Italia, a spiegare in una conversazione intercettata dalla Guardia di Finanza di Palermo qual è il suo ruolo all’interno dell’organizzazione che aveva le radici a Firenze. Simonetta Sodi, fiorentina di 55 anni, madre di tre figlie, da quando il suo compagno era finito in cella lo scorso ottobre per spaccio di droga nel parco di San Salvi — grazie a un’inchiesta del commissariato di San Giovanni coordinata dal pm Giovanni Solinas — era lei a portare la parola di Jabranne fuori dal carcere. Lui, dalla sala colloqui di Sollicciano, dà ordini, lancia minacce e organizza affari: dalla droga ai furti, dal traffico di persone, al contrabbando di sigarette. Organizza le traversate, decide l’acquisto di gommoni superveloci, quelli che permettevano di raggiungere la costa italiana in tre ore e mezzo, stabilisce il prezzo per gli scafisti (2.500 euro a viaggio).
Simonetta esegue gli ordini anche lo scorso settembre, quando prende un aereo da Pisa diretta a Trapani con 10 mila euro in contanti in tasca per andare a Palermo ad acquistare per conto di Jabranne Ben Cheikh il gommone che s’intesterà lei. Proprio come aveva fatto mesi prima con due cani rottweiler che la banda di San Salvi utilizzava per terrorizzare i «nemici». «Goditi questa giornata che hai comprato il gommone — le scrive lei in un sms quel giorno di settembre ad operazione conclusa — e goditi i tuoi soldi che ti sei guadagnato con sacrificio e paura li hai spesi per una giusta causa». Quale sia la «giusta causa» a cui fa riferimento la donna stanno adesso cercando di scoprirlo gli investigatori che stanno scavando alla ricerca di possibili fiancheggiatori del terrorismo islamico.
Quello che è certo è che l’«agenzia» funzionava perfettamente: a Nebeul, sulla costa tunisina c’era il padre di Jabranne che raccoglieva il denaro di chi voleva mettersi in viaggio, tra i2 e i 3 mila euro a persona, in Sicilia avveniva la scelta degli scafisti — tra loro anche alcuni passati da Firenze e da San Salvi — poi l’arrivo in Sicilia dove altre persone si occupavano dell’ormeggio. I migranti così sfuggivano ai controlli e proprio per questo gli inquirenti sospettano che su quei gommoni superveloci possano essere transitati anche possibili jihadisti.
«Quanti agnelli ci hai messo?» si sente in una telefonata di uno del gruppo per chiedere informazioni sul numero di migranti a bordo. «E quante balle di fieno?» riferendosi alle sigarette, un carico di oltre 100 chili verrà sequestrato dalla Finanza a marzo sul litorale di Marsala.
A dare un grosso contributo all’inchiesta di Palermo sono gli atti della Procura di Firenze sullo spaccio a San Salvi. Un ex fornaio che andava a rifornirsi di cocaina proprio dai tre fratelli Ben Cheikh era diventato l’autista dei pusher in cambio di cento euro a viaggio e di cocaina. Jabranne non aveva la patente e per questo aveva bisogno di essere accompagnato ovunque. A Napoli o in Sicilia, dove stringeva accordi e comprava denaro falso. Lo stesso autista qualche volta, su richiesta del capo, accompagnava gli amici alla frontiera a Ventimiglia. La vita di Jabranne è tutta nel telefonino sequestrato dalla Procura di Firenze a ottobre: foto di pranzi e cene di affari con i «soci» e anche i selfie con il gommone appena acquistato. Ma nel telefonino sono state trovate anche foto di alcuni documenti falsificati provenienti dal Belgio sui quali si sta adesso indagando.
Dopo l’arresto Jabranne era riuscito a ottenere i domiciliari con il braccialetto elettronico. Ma dall’appartamento di Campo di Marte dove viveva con la compagna. Dopo la condanna a sei anni, arrivata a marzo e firmata dal gup Mario Profeta, «il capo» ha capito che questa volta, a differenza delle altre, non sarebbe uscito presto dal carcere. E così ha rotto il braccialetto e ha tentato di fuggire. Poche ore dopo i poliziotti del commissariato di San Giovanni lo hanno riacciuffato e portato a Sollicciano (a luglio sarà processato per l’evasione). Qualcuno ha poi raccontato che ad attenderlo a Firenze sud c’erano due auto arrivate dalla Francia che l’avrebbe portato lontano dall’Italia. Non poteva sapere che la procura antimafia di Palermo gli stava già addosso. Non solo a lui ma anche alla moglie Simonetta, sposata lo scorso gennaio. Interrogata ieri dal gip Paola Belsito la donna, assistita dall’avvocato Carmine D’Agostino, ha risposto e ha respinto tutte le accuse. Dice di essere serena.
L’sms al marito Goditi questa giornata che hai comprato il gommone e i soldi spesi per una giusta causa Il carico Quanti agnelli (uomini, ndr) ci hai messo? E quante balle di fieno (sigarette, ndr)?