1834: il Palio democratico
La Festa vista dal bibliotecario del re di Francia: le suggestione di ieri, le spigolosità di oggi La piazza dell’«armonia civica»: il popolo, diviso e unito, prendeva posto senza gerarchie fisse
«La corsa del Palio di Siena, come corsa, è sicuramente qualcosa di molto mediocre. Non c’è alcuno dei nostri cavalli di razza illustre, purosangue o anche mezzosangue; i cavalli sono delle specie selvagge prese dalla Maremma, i fantini son giovinastri…»: la descrizione che Antoine-Claude Pasquin (1789-1847), noto col soprannome di M. Valery, fa dei protagonisti della carriera non è entusiasta.
Rileggere oggi le annotazioni di questo viaggiatore francese che dell’Italia compose una guida in cinque volumi, editi a Parigi a partire dal 1831, è divertente per capire lontananze e affinità. Se non inseriva qualche appunto di diario nei capitoli dei suoi enciclopedici resoconti, Valery non lo gettava, ma lo impaginava in libretti tascabili: da uno di questi microtesti — Curiosités et anecdotes italiennes, Bruxelles 1845, finora mai citato — traggo qualche passo, invitando a comparare senza cedere a nostalgie o rimpianti, la spigolosa attualità con un passato ricco di suggestioni.
Pasquin, bibliotecario del re a Versailles, godeva della somma stima di autori quali Stendhal, Chateaubriand, Dumas padre. Le sue indicazioni erano imperative: per primo aveva concepito guide che non si soffermassero solo su fastosi monumenti e capolavori artistici, ma illustrassero gastronomia e prelibatezze del made in Italy. A Siena, dunque, il distinto visitatore, di idee severamente conservatrici ma indagatore senza pregiudizi, capitò nel 1834 e assisté al Palio disputato il 17 agosto in onore dell’Assunta. Gli aspetti ippici, va detto, non lo attrassero per nulla: capì al volo che non erano il cuore della complicata macchina. Erano semmai il furioso atto conclusivo di un complicato itinerario. Valery si era concesso il lusso di sostare alcune settimane a Siena, uno dei luoghi d’Italia dove sarebbe, confessa a un certo punto, «più dolce abitare». E non si stanca di rilevare sintomatiche rispondenze simboliche. Il Campo è ai suoi occhi una «grande piazza di repubblica e di democrazia»: è lo spazio di un’armonia civica che esclude toponimi sanguinosi come la parigina piazza della Rivoluzione: piuttosto potrebbe portare il «nome morale» di piazza della Concordia. Per l’appunto il fatidico giorno del Palio era onorato dalla presenza del granduca Leopoldo II. Il sobrio corteo che apre le celebrazioni è formato da una doppia fila di carrozze capeggiate da quella della famiglia granducale, accolta non da sguaiati gridi, ma da applausi rispettosi.
Certi risvolti politici piacciono molto all’acuto ospite: il Palio era festa dell’indipendenza di uno Stato che aveva serbato l’involucro istituzionale di una storia gloriosa, accettando però con disciplinato ossequio una condizione radicalmente nuova. Lo smagliante spettacolo compensava la pungente afflizione per l’autonomia perduta. Quella piazza brulicante di ansiosi desideri faceva pensare a quando lungo le sue traiettorie s’intersecavano filosofi e artigiani, oratori famosi e virtuosi pittori. Ora era abitata da un popolo, che portava «la coccarda della sua Contrada — scrive un estasiato Valery — sui leggeri e larghi cappelli di paglia o paglia». E questa moltitudine, divisa e unita, era disposta secondo una geometria senza prefissate gerarchie: da ogni angolazione si poteva vedere tutto, non c’era bisogno di fare a gara per conquistare le prime posizioni. Come non cogliere in controluce un amaro moralismo? Il corteo era stato «decorato come al solito — attesta un manoscritto — colle duplici bandiere delle dieci Contrade con due bande istrumentali, e con comparse vestite alla spagnuola». Allorché si scatena la bagarre tutti parteggiano senza ritegno, anche «il mondo dei balconi», la sovrastante élite delle terrazze e delle finestre: «Certo c’è una prodigiosa energia — riflette il francese — in una nazione dotata di tali sensazioni e non si tratterebbe che saperle dirigere». Quanto alla gara, la vittoria fu riportata — caduto il fantino Giovanni Brandani detto Pipistrello — dal baio scosso del Nicchio, che fece cappotto, avendo già trionfato a luglio. Siccome nella Collegiata di Provenzano, dove ci si recava a cantare il Te Deum del ringraziamento, nessun prete era lì pronto a intonare le note dell’inno una giovane donna tagliò corto sbrigativa: non c’era bisogno di attendere la mediazione di un sacerdote per declamare una preghiera che veniva dal cuore. Tornando alle riserve sui rustici ronzini assegnati per la febbrile contesa, dove sta, allora, il segreto di uno spettacolo così ippicamente modesto? Il bibliotecario non esita a scrivere che la stupefacente rappresentazione deve i suoi veri titoli di nobiltà al «côté moral», alla sostanza etica che l’alimentava, eccitando, nell’anfiteatro unico di una piazza-comunità, radicati sentimenti e resuscitando memorie care. Come se non fossero trascorsi tempi crudeli e calamitosi rovesci.
Tutto un altro scenario La prevalenza dei valori etici e politici: «La corsa, come corsa, sicuramente è molto mediocre». E i fantini? «Sono solo dei giovinastri»