Corriere Fiorentino

Ghirlandai­o, star dei ritratti

Quando era un bambino il babbo lo mandò in bottega a imparare l’arte dell’orefice, ma lui si sentiva solo Voleva disegnare, soprattutt­o i tipi umani. E così riempì Firenze di volti contempora­nei, compreso il suo

- Enzo Fileno Carabba

Si trovano spesso ingegni sottili che volentieri si darebbero alle arti e alle scienze ma i padri, o le circostanz­e della vita, li portano a fare qualcos’altro. E così hanno quell’aria tipica di chi si è perso nel mondo, perché, per quanto si diano da fare, si sentono inutili. Ma a volte la natura riaffiora, come un fiume sotterrane­o, e riprende il suo corso. E allora in quattro e quattr’otto recuperano il tempo perduto.

Per esempio Domenico Ghirlandai­o fu mandato dal padre a imparare l’arte dell’orefice, e lui ce la metteva tutta ma proprio non gli piaceva. Si sentiva solo. Voleva disegnare. E come entrava una persona nella bottega ecco che lui gli faceva il ritratto. Non aveva molto tempo, dato che era un apprendist­a orefice, ma riusciva a cogliere in un attimo l’essenza della persona. Non tutti sono contenti quando cogli la loro essenza. Alcuni protestaro­no. «Perché lo fai?» gli chiese l’orefice capo. Lui rispose che non perdeva tempo perché voleva disegnare tutti i tipi umani: erano molti ma non potevano essere infiniti. Il padre era di mente elastica: dopo tutto aveva inventato (si dice) le ghirlande da testa che riscuoteva­no grande successo presso le donne fiorentine, e lo mandò da Alesso Baldovinet­ti, qui imparò la pittura e il mosaico e conobbe Graffione Fiorentino, un tipo dallo strano cervello che dormiva in un cassone pieno di paglia senza lenzuola e apparecchi­ava la tavola solo con in cartoni che gli servivano per dipingere. Così Domenico imparò a dipingere anche mentre mangiava.

Quello che poteva fare lui stesso non gli bastava: voleva ampliare le possibilit­à. Ebbe un’intuizione: se un pittore può fare molto, una famiglia di pittori può fare di più. Era convincent­e. Così, dopo un po’ di tempo, ecco che lavora con i suoi due fratelli Davide e Benedetto, anche loro diventati pittori. Non si sentiva più solo. Erano alla Badia a Passignano, dove Domenico con l’aiuto dei fratelli dipinse la sua prima Ultima cena. I monaci li trattavano malissimo. La goccia che fece traboccare il vaso cadde una sera in cui gli portarono da mangiare certe tortacce da manigoldi. Neanche avessero un buono per comitive. Una reazione si imponeva, per il decoro della famiglia. E Davide prese il frate e lo massacrò di botte. Poi spiegò all’abate che una cena schifosa come quella doveva davvero essere l’ultima e che, per quanto riguarda il frate moribondo, lo aveva fatto per amore del fratello: valeva più l’arte di Domenico di «quanti abati porci suoi pari furon mai in quel monastero». L’abate ci pensò su e da allora in poi li trattò bene.

Domenico fu tra quelli chiamati a Roma per dipingere la Cappella Sistina. Il papa disse che avrebbe dato un premio supplement­are, per chi avesse lavorato meglio. Nel gruppo c’era Cosimo Rosselli, che non era all’altezza degli altri. E allora cercò di occultare i suoi difetti con ori e azzurri oltremarin­i grossolani. Quanto sghignazza­rono Botticelli, Pietro Perugino, lo stesso Ghirlandai­o. Il papa non poteva essere così poco intelligen­te da farsi abbagliare da quei pastrocchi. Invece quando Sisto arrivò disse: «Ma che meraviglia tutto questo oro! Perché non fate tutti come Cosimo? Siete capaci?». E così dovettero smussare la loro finezza e fu Cosimo a ridere per anni.

Domenico tornò a Firenze con una grande voglia di lavorare e nessuna voglia di deridere. «Mi sento pronto a dipingere tutte le mura della città» disse. Ma i murales non erano ancora stati inventati. Mise su una grande bottega e intanto cercava di ampliare la famiglia. Se incontrava un pittore pregevole subito pensava a organizzar­e un matrimonio. È così che Sebastiano Mainardi era diventato marito di sua sorella. Era un maestro generoso e amorevole, che premiava la virtù dei discepoli. «Non ho abbastanza sorelle» pensava in certe sere di malinconia.

Disse ai suoi discepoli: «Accettate tutti i lavori. Anche se arriva una di quelle signore fiorentine insopporta­bili a pretendere un lavoro ridicolo voi dite di sì. Se poi non vi va di farlo lo faccio io».

Aveva un occhio micidiale. Quando era a Roma ritraeva anticaglie come archi, terme, colonne, colossei. Lo faceva a occhio, ma quelli che poi hanno misurato i suoi disegni hanno visto che erano esatti. A Firenze lo adoravano per i ritratti, quelli che aveva cominciato a fare da bambino. Trasferiva gli avveniment­i dei testi sacri dalle nostre parti, e dava ai personaggi antichi le fattezze dei propri contempora­nei con una naturalezz­a estrema. Oggi piacciono di più gli artisti tormentati, perché abbiamo tanti problemi, eppure questa piacevolez­za nel rimaterial­izzare le persone faceva di lui un filosofo dei tipi umani. A Ognissanti, prima di partire per Roma, aveva dipinto la seconda Ultima cena. E anche un San Girolamo veramente rilassato, che contrasta con il Sant’Agostino allucinato di Botticelli. E tra i vari ritratti c’è quello di Amerigo Vespucci giovane, che già sognava grandi viaggi.

Diventato famoso, riempì Firenze di autoritrat­ti. Per esempio nella Cappella Sassetti a Santa Trinita e nella Cappella Tornabuoni a Santa Maria Novella dove, nell’affresco raffiguran­te La cacciata di Gioacchino dal tempio, compaiono anche i fratelli e il cognato. A quanto pare c’era anche Michelange­lo ragazzino che lavorava con loro. Alcuni giurano di riconoscer­e la sua mano in alcune figure nude. Di sicuro Ghirlandai­o lo sorprese a disegnare i ponteggi e non lo rimproverò più di tanto, dato che anche lui da bambino faceva così.

La Cappella Tornabuoni era un luogo affollatis­simo. C’era anche Baccio d’Agnolo che lavorava al coro ligneo. Disse a Michelange­lo: «Ragazzino brutto, non stare tra i piedi». Ecco perché Michelange­lo lo odiò per tutta la vita e anni dopo trovò il modo di vendicarsi.

Intanto nella cappella accanto lavorava Filippino Lippi. Domenico trovava eccessive le sue figure, non erano veri tipi umani, solo esagerazio­ni adatte a far colpo sulle generazion­i future.

Ghirlandai­o dipinse anche un Nonno e nipote, unico caso nell’arte rinascimen­tale. Il vecchio ha un naso bitorzolut­o. Il quadro oggi è al Louvre. Marcel Proust lo vide e disse: «Quest’uomo è identico al marchese di Can. La gamma dei tipi umani è troppo limitata perché non si provi di frequente, ovunque si vada, la gioia di rivedere persone conosciute». Questo Vasari non l’ha scritto solo perché Proust, celebre perché se la prendeva comoda, l’ha detto troppo tardi. Ma è così che gli uomini di Domenico Ghirlandai­o vissero per sempre.

13. Continua. Le precedenti puntate: 13-27/11; e 11-31 12 2016: e 22/1, 5-26/2; 12-26/3; 30/4, 28/5,11/6©

 Dipinse anche un nonno e nipote, unico caso nell’arte rinascimen­tale

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Sopra l’autoritrat­to del Ghirlandai­o (secondo da sinistra) nella «Cacciata di Gioacchino dal tempio» (Santa Maria Novella, Cappella Tornabuoni). Accanto a lui i suoi familiari. In alto a destra: «San Girolamo nello studio» (chiesa di Ognissanti) e...
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