CAPITAN HOOK RITORNO AGLI OTTANTA
Stasera il concerto del grande bassista inglese, fondatore dei Joy Division e New Order «Ci giudicavano come una band cupa, ma non credo che fossimo così Firenze? È la patria italiana della new wave, con una scena musicale sempre attenta»
Se non fosse uno dei più grandi protagonisti del rock degli anni Ottanta, uno dei fari della new wave e del punk, bassista di culto, Peter Hook sarebbe un perfetto prototipo vivente di Dr Jekyll e Mr. Hyde. Già dal nome: in parte Peter (Pan) e in parte Capitan Uncino (Hook). Un esponente di spicco della cultura «dark» che però vede «un mondo più luminoso e meno tenebroso di quanto lo si dipinga». Tanto da definirsi «un ottimista». Era «un ragazzo angosciato» quando si immergeva negli eccessi, in tutti i sensi, degli anni Ottanta. E si trasformato in un uomo di 61 anni «sobrio da oltre un decennio e molto più allegro». Ian Curtis ci ha lasciato nel 1980. Adesso è lui a tenere alta la bandiera dei Joy Division, una delle più importanti rock band del panorama inglese e mondiale di sempre. Stasera è in concerto al Teatro Romano di Fiesole (ore 21.30) con la sua formazione The Lights e il progetto Substance dal titolo della raccolta di singoli della vecchia band. Con dentro anche molto del repertorio dei New Order, gruppo nato dalle ceneri dei Joy Division. «Firenze è la patria italiana della new wave – ci racconta Peter Hook – e ha sempre avuto una scena musicale molto attenta e sensibile. Ne continuo ad avere le prove ogni volta che suoniamo qui: vedo folle entusiaste, grande attaccamento. Credo che il motivo sia da trovare nella tradizionale vocazione di città d’arte, che porta ad aprire la mente a tante diverse influenze», concetto che di quella rivoluzione culturale incarna il senso più profondo. «Ho chiesto al poeta John Cooper Clarke se persone come noi avrebbero potuto fare qualcosa di diverso della loro vita, come trovarsi a un lavoro normale. Mi ha risposto: “del tutto impossibile””. Ecco cosa vuol dire essere ed essere stato un artista punk, secondo Peter Hook. «Dici punk e subito la gente pensa ad artisti aggressivi e divisivi. Perché cercavamo di rovesciare un modo di pensare, ma al di là di quello era un modo di porsi libero, era autodeterminazione, significava prendersi dei rischi. Ci giudicavano come una band cupa, dai contorni oscuri, ma non credo che fossimo davvero così» prosegue, guardando indietro a quella stagione. «Non facevamo politica». anche se, ricorda, «in molti lo hanno pensato».
Invecchiando, spiega, «cominci a spazzare via l’angoscia e le insicurezze della gioventù e guardi a te stesso e al tuo personaggio in modo diverso». In
questo senso Peter Hook sembra distinguersi da molti altri grandi della stagione postpunk: «Si può essere punk anche oggi, sia pur con una diversa sensibilità, continuando a esprimersi liberamente al di là di ciò che gli altri vorrebbero da te». In questo senso si è aperto al cambiamento e ha cercato di lasciare un’eredità che non fosse la prosecuzione della sua musica. Ma una «evoluzione». E l’ha trovata in suo figlio Jack Bates: «È un bassista fantastico, ovviamente ha i miei geni – scherza - Ha suonato sette anni con me nei The Light e ora è diventato un musicista tremendamente dotato. È andato in tour con gli Smashing Pumpkins e sarà sicuramente il mio erede musicale».