Tra le pagine della Woolf
I suoi testi sono tra i più difficili da tradurre, e in libreria sta vivendo un vero revival La fiorentina Cristina Verrienti si è occupata del libro «Flush», biografia di un cocker spaniel
Virginia Woolf, fra i pilastri del modernismo, è notoriamente tra gli autori più difficili da tradurre dall’inglese, ma sta vivendo un piccolo revival in libreria. Dopo il successo di Oggetti solidi, la raccolta delle sue prose brevi edita da Racconti edizioni, arriva oggi in libreria per Elliot il suo Flush, inusuale biografia di un cocker spaniel appartenuto alla poetessa Elizabeth Barrett Browning, che la accompagnò nei suoi lunghi soggiorni in Toscana, tradotto dalla fiorentina Cristina Verrienti, già collaboratrice di Giunti e tra i membri di Firenze RiVista. Nei prossimi giorni è inoltre in uscita, sempre per Elliot, Jane Austen raccolta di tre saggi della Woolf sulla grande autrice inglese.
Qual è stata la tua formazione e quale il tuo rapporto con la scena letteraria locale e nazionale?
«Dopo la laurea magistrale in Teoria e pratica della traduzione letteraria a Firenze, ho frequentato un corso di traduzione al Centro Eielson, mentre completavo il periodo di abilitazione all’insegnamento dell’italiano L2. Sognavo di tradurre, ma non mi era chiaro il percorso che avrei dovuto seguire una volta terminati gli studi specialistici. Il progetto GiovaniSì, promosso dalla Regione Toscana per i tirocini non curricolari, mi ha dato la possibilità di entrare a lavorare come redattrice nella redazione narrativa di Giunti dove sono rimasta per quasi due anni. Lì ho imparato tutte le fasi di lavorazione del libro, dalla selezione del manoscritto fino all’impaginato pronto per la stampa e per la prima volta mi sono confrontata con il lavoro del traduttore. Dall’altra parte dello specchio, certo, ero io che rivedevo il testo, ma è stato un esercizio di fondamentale importanza per imparare dagli errori e dalle intuizioni altrui. Da allora sono passati altri due anni, in cui ho collaborato con riviste come Lungarno e Ful, oltre a far parte del comitato organizzativo del festival Firenze Rivista. Da poco sono entrata anche a far parte della redazione della rivista bilingue The Flr. In questo periodo mi sono appassionata allo “young adult”: da valutare le proposte editoriali sono arrivata a tradurle, infatti è stato un Ya il primo romanzo che ho tradotto. Passando attraverso noir, gialli, romanzi rosa sono poi approdata a Elliot Edizioni dove mi attendeva Flush».
Come è lavorare con Virginia Woolf rispetto agli altri autori che hai tradotto finora?
«Grazie a Virginia Woolf ho avuto il tempo di esitare. Non mi era ancora successo con gli autori che avevo tradotto fino a quel momento. Spesso i tempi dell’editoria non ti permettono di riflettere a lungo su una soluzione, salvi il maggior numero di significati possibile e poi ti rimetti subito a scrivere. In questo caso invece, non solo ho letto, riletto e consultato i testi, ma ho potuto soffermarmi sulle strategie e la scelta di una parola, sul nome da dare a una stoffa che in età vittoriana le donne usavano per confezionare abiti da lutto, o sulla seduta del vetturino in certi tipi di carrozze, o sul nome di un quartiere londinese, o ancora sulle diverse specie di spaniel, ricorrendo all’aiuto della sarta, del designer, dell’amica anglista con la crescente consapevolezza che le persone della tua vita indugiano e scrivono insieme a te».
Ma come è stato lavorare a «Flush» nello specifico?
«Non semplice. Sebbene mi sentissi pronta ad affrontare un testo con un livello di complessità superiore rispetto al passato, avevo nelle orecchie l’eco di due importanti traduzioni: quelle di Alessandra Scalero e di Chiara Valerio. C’era una reale necessità di ritradurlo, mi chiedevo? Studiando teoria della traduzione impariamo che le traduzioni invecchiano, ma era questo il caso? La versione della Scalero era quella su cui avevo studiato a scuola, forse un po’ passata; la versione della Valerio un’opera conclusa con delle scelte ponderate ma decise (mi viene in mente l’uso dei tempi verbali). Il lavoro mi ha richiesto un grande sforzo di mediazione: non potevo davvero ignorare cosa era stato fatto prima, per questo prendere una decisione portava via molto tempo. Dovevo valutare di continuo quale fosse la soluzione più convincente per rendermi invisibile».
Come vedi il lavoro del traduttore, oggi, rispetto al contesto editoriale?
«Il fatto di aver potuto osservare il lavoro del traduttore come revisore di una grande azienda è stato decisivo per comprendere in cosa consistesse davvero, le competenze richieste e l’importanza dei compiti svolti da ciascuno nella realizzazione di un libro. Senza questa esperienza “a bottega” dubito che sarei mai riuscita a farmi affidare una traduzione da una casa editrice. Non è solo la poca esperienza del traduttore esordiente a rappresentare un ostacolo, ma pure la difficoltà di arrivare a fare proposte interessanti all’editore. Questo secondo aspetto richiede una serie di competenze che trascendono la bravura nel tradurre e la sensibilità letteraria. È invece di grande importanza documentarsi sul panorama dell’editoria nazionale, tenersi aggiornati sui cataloghi per riuscire a fare proposte di traduzione mirate che interpretino la tendenza del mercato».
Grazie a lei ho avuto il tempo di esitare, non mi era mai successo, spesso i tempi dell’editoria non te lo permettono ma in questo caso è stato necessario