La moglie si sfoga in San Niccolò «Doveva dargli il portafoglio»
Ghirelli sempre grave: è in coma farmacologico. «Come si può finire così per pochi euro?»
«Ma perché non gli ha dato il portafoglio?». Daniela Cammilli non si dà pace. Tornata di corsa dal mare con i nipoti si è rifugiata nella sua San Niccolò, tra la sua gente. Ha parlato con il verduraio del rione, con la barista del circolino dove Gino Ghirelli, il marito, tutti i giorni si fermava a prendere il caffè, prima e dopo il lavoro.
Sono tanti i «perché» a cui Daniela non riesce a dare risposta, ma soprattutto non capisce come mai il suo Gino non l’abbia chiamata subito dopo l’accaduto per raccontarle come erano andati i fatti. A qualcuno ha detto che «forse mio marito ha sottovalutato quella botta alla testa e pensando non fosse nulla di grave si è medicato a casa. Doveva dargli quel portafoglio — continua a ripetere, come una cantilena, agli amici — Non si può fare questa fine per qualche euro. Probabilmente voleva salvare i documenti, la patente. Temeva che perdendola non avrebbe più potuto guidare il taxi». Daniela per ora ha soltanto la versione ricostruita dagli investigatori che stanno cercando di fare luce sull’episodio basandosi sullo scarno racconto che lo stesso tassista ha affidato alla centrale della Cotafi.
Ma ora per la donna la priorità è la battaglia che il marito Gino sta conducendo a Careggi: ricoverato in terapia intensiva ha subito un intervento alla testa per cercare di ridurre l’edema. È grave, in coma farmacologico, «ma nei prossimi giorni proveranno a risvegliarlo», dice il fratello Massimo che ieri ha voluto passare qualche ora al suo capezzale. «Non so se mi abbia sentito o no ma io ho voluto parlargli lo stesso — aggiunge con gli occhi gonfi di emozione — Gli ho raccontato delle nostre scorribande da ragazzi, di quando lui, nei giorni dell’alluvione del ‘66, si caricò sulle spalle il medico per portarlo a casa nostra, in Santa Croce. Io ero malato e quel suo atto d’amore mi salvò la vita». Massimo Ghirelli è un fiume in piena, e rammenta che nel 1962 la sua famiglia si trasferì a Firenze da Premilcuore, in provincia di Forlì, per stare vicino al babbo che faceva l’operaio. E poi parla dei tanti lavori di Gino che, per la sua stazza, ha sempre chiamato «King Kong»: «Non è mai riuscito a stare fermo: ha fatto il cameriere, ha avuto un bar in via di Tripoli e infine, a metà anni novanta, ha comperato la licenza taxi. Ma è stato anche un pugile affermato: tra il ’68 e il ’70 andava ad allenarsi al Cristallo, in piazza Beccaria, e riuscì a vincere perfino il campionato giovanile della Toscana. Ora invece si dedica alla pesca, ha anche una sua barchetta a cui tiene tanto. Gino è un gigante buono, non meritava questo… E a noi non resta che credere nella giustizia».
Il fratello Gli ho parlato, non so se mi ha sentito, ma io ho voluto raccontargli le nostre scorribande da ragazzi. Lui per me è sempre stato King Kong