Ma chi ha paura di Malaparte?
Sessant’anni fa moriva lo scrittore pratese che scandalizzò l’Italia dei conformismi Amava provocare, sorprendere, irritare e far discutere. Anche al «Premio Strega», ieri come oggi
Avrebbe dovuto chiamarsi La peste, ma un libro con questo titolo c’era già. Lo aveva scritto, nel 1947, Albert Camus. Allora Malaparte, per raccontare l’Italia liberata, scelse come titolo La pelle. Pelle (dis) umana di un popolo lacero e confuso, sbattuto, umiliato, venduto, violato, e tuttavia gioioso e pieno di disperata speranza di redenzione mentre gli Alleati salivano da Sud a Nord, in mezzo a folle plaudenti. Oddio, non dappertutto, perché a Firenze, per l’intero agosto del 1944, i franchi tiratori fascisti sparano addosso a yankee e partigiani. E Malaparte, nelle ultime pagine del romanzo, eterna un gruppo di sdruciti ragazzini in camicia nera, che muoiono ammazzati davanti alla chiesa di Santa Maria Novella. Hanno tirato addosso ai liberatori dai tetti e ora se ne stanno , beffardi, a rider sul muso dei giustizieri rossi, che si incazzano. Roba da e tra toscani…
Ecco, per fare un gioco di parole, Malaparte — che fu messo all’Indice dal Sant’Uffizio per questo romanzo «osceno, immorale, anticristiano» — da che parte stava? Dalla sua, verrebbe voglia di dire. E cioè quella di un Narciso impenitente e impudente, tutto effervescenze barocche, compiacimenti caricaturali e grotteschi, descrizioni macabre lavorate col bulino per renderle ancora più atroci. Vero: Malaparte è un geniale sregolato che nell’eccesso ci gode. Alla faccia di chi non lo sopporta e proporrebbe un rogo. Più che mai ora che Adelphi ha sdoganato e rilanciato l’Arcitaliano. La pelle turba e disturba. I preti come i giurati del Premio Strega, che nel 1950 non lo mandano in finale. Vince La bella estate di Pavese.
Malaparte non si arrabbia per essere stato escluso. «Narcis fue molto bellissimo», scrive il «Novellino». E lui era convinto di essere «molto bellissimo» e di avere scritto un gran libro. Ma l’Italia degli anni ‘50 voleva risorgere, non sprofondare nel girone dei dannati. E di quello strano Virgilio superdandy che esibiva l’orrore, faceva volentieri a meno. Così, il Nostro proseguì protervamente nella via tracciatagli dal destino: «doveva» stupire, provocare, irritare. Fino alla morte (19 luglio 1957) «vissuta» da «comunista» innamorato della Cina di Mao, ma con accanto i preti che vogliono farlo convertire e con nel cuore una nostalgia piccola piccola per quel «testone» del Duce.
Un tipo scandaloso Malaparte. Tanto per cominciare, è un «crucco», e il suo vero nome è Kurt Suckert. Il babbo è un tintore sassone che si è trasferito a Prato. E la mamma è lombarda. Ma lui si sente italianissimo e toscanissimo, e nel 1914, sedicenne, va a combattere contro i crucchi nelle Ardenne, sotto le insegne della Legione garibaldina. Quattro anni dopo, alfiere del 52° Reggimento fanteria a Bligny, si becca una bella dose di iprite e ne esce con i polmoni spaccati. Il patriota è anche un sovversivo. Scrive un libro intitolato Viva Caporetto, in cui celebra la rivolta dei fanti umili e pidocchiosi contro l’arroganza e l’ignoranza degli Alti Comandi. Dopo sarà un fascista a mezza strada tra lo sfegatato e lo scomodo: uno che pubblica un libro con l’antifascistissimo editore Gobetti, che esalta il Duce ma lo piglia anche in giro, che rompe le scatole agli alti gerarchi e che viene spedito al confino per volontà di Balbo. E che, stavolta per volontà di Ciano, viene riaccolto «a bocca torta». I fascisti lo hanno sulle scatole e ne diffidano; gli antifascisti idem; e gli uni e gli altri invidiano il maschiaccio sciupafemmine, che cura troppo il suo aspetto.
Ma torniamo al Premio. Perché glielo soffiarono? Azzardiamo una risposta: perché era «troppo». Era «troppo» per lo Strega di allora, è «troppo» anche per lo Strega di oggi. Nel senso che nella cinquina dell’edizione 2017 sono stati ignorati due scrittori — la coppia Francesco Monaldi e Rita Sorti — che lo hanno eletto a protagonista di un romanzo (Morte come me, Baldini & Castoldi). Quasi richiamandolo dall’aldilà e mettendogli la penna in mano, tanto malapartiana è la trama (Curzio accusato di un delitto nella Capri del ’39) e la sontuosa scrittura. Ma i due coniugi ne hanno combinata anche un’altra. Perché non proponiamo uno Strega per Malaparte «alla memoria»? Almeno il fantasma la smetterà di ripetere: «Io non bevo Strega, ma champagne». Detto, fatto. Il manifesto «pro Curzio» di recente è stato firmato da più di cento illustri sottoscrittori — anche Rutelli e Veltroni — ma Giovanni Solimine, presidente della Fondazione Bellonci, ha detto no. Perché? La memoria di Malaparte è divisiva come da vivo era divisivo lui, lo stramaledetto toscano? Pare di sì e Rita e Francesco sono scatenati. «Allo Strega si sono comportati come quel filosofo aristotelico che rifiutò l’invito di Galileo a guardare nel cannocchiale — hanno detto — Perché non voleva credere ai propri occhi, e dare torto ad Aristotele». Ma non demordono: hanno depositato le firme in un archivio romano e fanno sapere che continueranno a combattere. Insomma, Malaparte è vivo (più che mai lo sarà l’anno prossimo a 120 anni dalla nascita) e lotta insieme a noi.
Il suo romanzo «La pelle» turbò i giurati che non lo mandarono in finale E anche quest’anno è stato ignorato un riconoscimento alla memoria