Lavorare per i migliori? È una dura impresa (dagli affari all’etica)
Il codice di Gucci e le regole imposte ai fornitori
Sono passati molti anni da quando qualche decina di artigiani di Gucci lavorava sotto le volte del palazzo di via delle Caldaie. Oggi Gucci è un marchio globale, ma il made in Italy resta una sua caratteristica imprescindibile e da quel piccolo laboratorio è nata un’azienda che coinvolge, tra dipendenti e indotto, circa 45.000 persone in Italia. E che tiene insieme i centri produttivi del gruppo con una rete di piccole e medie aziende di fornitori, tutto all’insegna della creatività e della sostenibilità, con il sapere fare degli artigiani unito alla costante ricerca della qualità.
Oggi la doppia G alimenta un «bacino» che, solo nell’area di Firenze, conta oltre 60 fornitori di primo livello, e una rete di sub fornitori costituita prevalentemente da piccolemedie imprese, che lavorano per la maison di moda da più generazioni. Conosciuto ed apprezzato per l’eccellenza dei suoi prodotti e la qualità delle sue ditte, il polo della pelletteria fiorentina comprende circa 2.500 aziende, che rappresentano un terzo di quelle toscane e circa un decimo di quelle nazionali del settore. Sotto la sponsorizzazione del brand Gucci, e con l’apporto di Confindustria Firenze, le imprese che fanno parte della filiera Gucci si sono costituite in rete già dal 2011: si tratta di «laboratori artigianali» specializzati nella piccola pelletteria, nelle borse e nella valigeria. Innovazione ed economicità sono i principali obiettivi di questa forma aggregativa che punta a rafforzare la competitività del tessuto produttivo. Ma come scrive Francois-Henri Pinault nella prefazione del Codice Etico della Kering, colosso del lusso che ha Gucci tra le propie aziende, «non esistono aziende sostenibili senza fiducia, e questa fiducia si basa in primo luogo sulla nostra capacità di dimostrare quotidianamente il nostro impegno nella conduzione responsabile degli affari». Un Codice Etico, quello del gruppo francese del lusso, che definisce i punti di riferimento «che devono guidare ognuno di noi», aggiunge Pinault, e che si può riassumere in pochi punti: «Rispetto per i collaboratori, parità uomo/donna in tutti gli aspetti della vita professionale, contrasto alla corruzione e alla frode, lotta contro il lavoro dei bambini, applicazione delle principali convenzioni dell’Organizzazione mondiale del lavoro, rispetto per l’ambiente, ascolto delle parti civili e mobilitazione delle forze per affiancare le comunità locali».
Kering non si è fermata a questo, è andata oltre redigendo anche la «Carta dei fornitori del gruppo», sei regole che tutti i terzisti e l’indotto devono approvare e sottoscrivere. Innanzitutto, chi lavora per Gucci o per una delle tante aziende satellite controllate da Pinault, si impegna a proibire qualunque tipo di attività che possa compromettere la salute, la sicurezza e la moralità. Non solo, i principali fornitori almeno ogni due anni devono passare l’audit del gruppo e «prima di qualunque relazione contrattuale — si legge nella Carta — gli osservatori esterni di Kering avranno libero accesso ai documenti amministrativi, al personale e ai siti produttivi, di confezionamento e di trasporto in modo da poter valutare le condizioni di corretta esecuzione della carta».
Lavorare per Gucci, insomma, significa perseguire elevati standard di qualità, di risparmio energetico e di tutela ambientale (ad esempio ridurre chimica e produzione di CO2), migliorando l’ambiente del lavoro e la formazione.