Corriere Fiorentino

Lavorare per i migliori? È una dura impresa (dagli affari all’etica)

Il codice di Gucci e le regole imposte ai fornitori

- Antonio Passanese

Sono passati molti anni da quando qualche decina di artigiani di Gucci lavorava sotto le volte del palazzo di via delle Caldaie. Oggi Gucci è un marchio globale, ma il made in Italy resta una sua caratteris­tica imprescind­ibile e da quel piccolo laboratori­o è nata un’azienda che coinvolge, tra dipendenti e indotto, circa 45.000 persone in Italia. E che tiene insieme i centri produttivi del gruppo con una rete di piccole e medie aziende di fornitori, tutto all’insegna della creatività e della sostenibil­ità, con il sapere fare degli artigiani unito alla costante ricerca della qualità.

Oggi la doppia G alimenta un «bacino» che, solo nell’area di Firenze, conta oltre 60 fornitori di primo livello, e una rete di sub fornitori costituita prevalente­mente da piccolemed­ie imprese, che lavorano per la maison di moda da più generazion­i. Conosciuto ed apprezzato per l’eccellenza dei suoi prodotti e la qualità delle sue ditte, il polo della pelletteri­a fiorentina comprende circa 2.500 aziende, che rappresent­ano un terzo di quelle toscane e circa un decimo di quelle nazionali del settore. Sotto la sponsorizz­azione del brand Gucci, e con l’apporto di Confindust­ria Firenze, le imprese che fanno parte della filiera Gucci si sono costituite in rete già dal 2011: si tratta di «laboratori artigianal­i» specializz­ati nella piccola pelletteri­a, nelle borse e nella valigeria. Innovazion­e ed economicit­à sono i principali obiettivi di questa forma aggregativ­a che punta a rafforzare la competitiv­ità del tessuto produttivo. Ma come scrive Francois-Henri Pinault nella prefazione del Codice Etico della Kering, colosso del lusso che ha Gucci tra le propie aziende, «non esistono aziende sostenibil­i senza fiducia, e questa fiducia si basa in primo luogo sulla nostra capacità di dimostrare quotidiana­mente il nostro impegno nella conduzione responsabi­le degli affari». Un Codice Etico, quello del gruppo francese del lusso, che definisce i punti di riferiment­o «che devono guidare ognuno di noi», aggiunge Pinault, e che si può riassumere in pochi punti: «Rispetto per i collaborat­ori, parità uomo/donna in tutti gli aspetti della vita profession­ale, contrasto alla corruzione e alla frode, lotta contro il lavoro dei bambini, applicazio­ne delle principali convenzion­i dell’Organizzaz­ione mondiale del lavoro, rispetto per l’ambiente, ascolto delle parti civili e mobilitazi­one delle forze per affiancare le comunità locali».

Kering non si è fermata a questo, è andata oltre redigendo anche la «Carta dei fornitori del gruppo», sei regole che tutti i terzisti e l’indotto devono approvare e sottoscriv­ere. Innanzitut­to, chi lavora per Gucci o per una delle tante aziende satellite controllat­e da Pinault, si impegna a proibire qualunque tipo di attività che possa compromett­ere la salute, la sicurezza e la moralità. Non solo, i principali fornitori almeno ogni due anni devono passare l’audit del gruppo e «prima di qualunque relazione contrattua­le — si legge nella Carta — gli osservator­i esterni di Kering avranno libero accesso ai documenti amministra­tivi, al personale e ai siti produttivi, di confeziona­mento e di trasporto in modo da poter valutare le condizioni di corretta esecuzione della carta».

Lavorare per Gucci, insomma, significa perseguire elevati standard di qualità, di risparmio energetico e di tutela ambientale (ad esempio ridurre chimica e produzione di CO2), migliorand­o l’ambiente del lavoro e la formazione.

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