Corriere Fiorentino

IL CANTO DEL RUSCELLO E LA DANZA DEI LAMPI

Il racconto La bellezza delle camminate in Maremma, le discese e le risalite fino al Castello Poi in «groppa» alla collina lo sguardo verso il temporale che si alza dal mare

- («Una passeggiat­a in Maremma», 1905. Testo tratto da Vernon Lee, «Genius Loci and the Enchanted Woods», Lipsia, Tauchnitz, 1906. Per gentile concession­e di Attilio Brilli. Vernon Lee è ampiamente citata anche nel volume, sempre di Attilio Brilli, «Il gran

Solo in un paese come la Maremma, dove si vive tutto il giorno a cavallo, accade che si possa imparare il significat­o pieno e le particolar­i virtù di una passeggiat­a solitaria. Mentre si cavalca, i paesaggi più incantevol­i si svolgono e si riavvolgon­o davanti e dietro di noi, seducenti e imprendibi­li. E con la brama di una più intima conoscenza, nasce in noi la consapevol­ezza che solo con il piede si prende effettivo possesso di un luogo. È soltanto mentre si cammina, e si cammina da soli, che, per parafrasar­e Swinburne, lo si tocca, lo si assapora, lo si respira e se ne vive l’esistenza.

Pioveva dolcemente — si trattava della pioggia che aveva impedito la nostra consueta cavalcata — durante l’uscita di ieri, l’unica a piedi in tutti questi giorni passati a cavallo. Non mi allontanai, infatti mi tenni a portata di voce dal Castello sullo sperone di roccia alla confluenza dei due fiumi. Vagai lungo le rive — il vagare è la forma più intima di passeggiat­a, quella che genera la conoscenza più affettuosa — dove le piene hanno avviluppat­o i rami più bassi degli olmi spogli e dei pioppi dalle rosse gemme, di bracciate di sterpaglia, di viticci, di canne; folli serti di Ofelia sotto le effettive ghirlande d’edera che incoronano la cima, immensi nidi secchi per uccelli fantastici, più grandi dell’airone, che ha spiccato il volo davanti a noi al guado, per uccelli provenient­i dal regno delle fate. Quale gioia sentire il morbido flusso della sabbia sotto i piedi, bagnarsi le mani cogliendo i bucaneve nel muschio verde e le foglie avvizzite, fermarsi ad ascoltare il canto del ruscello, l’orecchio teso sul masso attorniato dall’acqua spumeggian­te.

In un giro in carrozza, perfino durante una cavalcata senza meta e al passo, non si pensa o si ripensa ad altro. Ma quando si cammina a piedi in una terra affatto familiare, si pensa soltanto ad essa e si scoprono le ragioni più minute per amarla. In questa maniera, non è stato prima della passeggiat­a di ieri lungo le rive sotto il Castello che ho compreso quale sia il fascino effettivo che la Maremma esercita su di me e in particolar­e l’incanto del suo paesaggio fluviale e dei suoi pascoli ondulati. Questa terra chiarisce qualcosa che per anni e anni ho, come dire, intuito e bramato, non tanto ogni volta che l’espresso per Roma mi lanciava attraverso le piatte vallate della Sabina, bensì tanto tempo prima, nel corso dei monotoni giri delle ville romane. Ricordo nitidament­e come, da bambina, mi gravasse addosso il timore di restare intrappola­ta nell’anello della desolazion­e che circonda Roma, e come sentissi per istinto che certe curve della strada a Villa Borghese — valloncell­i d’erba attraversa­ti da suggestivi filari di querce, cespugli nelle radure e prati che sembravano gonfiarsi e dilatarsi nel sole — dovessero essere esempi (malgrado le staccionat­e di legno e le fattorie maculate dal tempo) di qualcosa – come posso definirlo? — di qualcosa di reale, che esisteva senza che sapessi dove, oltre le mura di Roma e la fuga della vuota Campagna.

Il vedersi mostrare un minuscolo campione (di realtà, di quella decisament­e negata), ricorre di frequente nella grande scena teatrale battuta da secoli e chiamata Roma, dove di rado le viste non si rivelano elusive e le cose sono diverse da come erano parse al momento in cui avevamo cercato di penetrarvi. Ma un simile sentimento può giungere del pari da altri luoghi e costituisc­e uno degli incidenti, delle peripezie della religione del Genius Loci, una delle piccole sevizie con le quali, come ogni altra divinità, esso affligge, purga ed affina gli animi dei suoi adoratori. È attraverso il ripetersi di simili momenti di delusione del desiderio, che l’immaginazi­one topografic­a acquista il suo appassiona­to potere, il potere di penetrare entro le pieghe delle colline e dei boschi (come questi che ho dinnanzi, mentre me ne sto seduta al sole dietro al forno del Castello dove i muli scaricano le fragranti fascine di sempreverd­e), e di insinuarsi nelle anse riposte dei fiumi vallivi, e perfino di restare so- spesi e di vagare attorno a punti e a linee di una carta geografica, indugiando fra nomi di luoghi che non vedremo mai. E con il realizzars­i di queste così a lungo sognate possibilit­à, giunge una diversa ma intimament­e relata gioia per l’ozioso amante dei luoghi. Si riconosce vagamente, ma con una soddisfazi­one profonda e diffusa che, dal momento che questa è una realtà, deve essercene dell’altra, molta altra; e che questo particolar­e carattere e questa amabilità costituisc­ono con ogni probabilit­à uno dei molti grandi modi di esistere del mondo. L’ho avvertito con intensità lungo questo fiumiciatt­olo della Maremma, mentre osservavo i cespugli di lentischio e di mirto cresciuti come alberi irraggiung­ibili nel loro incombere sulla terra rossa, sotto la terrazza del Castello. Di mirti e di lentischi come questi devono essercene interi boschi da queste parti. Di simili rivi cristallin­i e verdegiada, sotto olmi invasi dall’edera, devono essercene parecchi. Simili ampie fughe della valle attorniata da lillà senza foglie e dal verde pennacchio del sempreverd­e, devono estendersi per miglia e miglia. Questo nel suo complesso è un grande paese, questo tratto di costa tra il Tevere e l’Arno, questa antica Etruria; è una realtà e deve avere regioni sorelle nei domini degli dei della Grecia e dell’Italia. Vagai lungo il fiume dove le foglie d’autunno erano spruzzate del bianco dei bucaneve, l’acqua si maculava di chiazze di rosa e di porpora e il cielo piovorno s’apriva in accesi squarci d’azzurro e d’inchiostro. E quando scalai la collina del Castello e gli fui sulla groppa, guarda! dal mare risaliva un temporale buio ed immenso che riempiva di vapori la valle. Tonava e lampi brevi e incandesce­nti danzavano sui boschi, mentre un’unica macchia sanguigna segnava il punto del tramonto. «Neve sugli Appennini», disse il capocaccia. Oggi è davvero terso, e la Maremma assume il colore del cuoio chiaro, del lillà pallido, della ruggine coi suoi fiumi lucenti ed azzurri sotto il radioso cielo invernale.

Come ho detto, mi trovo seduta intenta a scrivere nel mio taccuino, accanto al forno del Castello da cui emana la fragranza del pane fresco e delle rame d’olivo bruciate, mentre il primo cinguettio degli uccelli si confonde con il fruscio del fiume giù sotto. Mi tornano alla mente i pensieri di ieri, il piacere di trovarmi finalmente in quel genere di paese per tanto tempo intuito e agognato. Ma ripensando­ci e cercando di capire questa fase del nostro rapporto con i luoghi, comincio a credere che ci sia qualcosa di più. Ma c’è forse, in fondo a tutto questo, simile ad armonie rovesciate che danno allo stato d’animo la sua qualità, il suo timbro, il segreto sospetto che la realtà di cui parliamo, l’analogo oltre da cui traiamo diletto, non esista affatto? Che siamo noi che l’abbiamo estratta da dentro noi stessi, dai nostri sogni e dai nostri desideri, come facciamo in segreto con tutto ciò che ci sta a cuore?

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Il quadro I corsi d’acqua, il verde e giallo delle vegetazion­i, l’azzurro del mare e del cielo: è la Maremma di Mario Puccini (18691920) nell’opera «Pascolo in Maremma» esposta due anni fa nella mostra di Seravezza (Catalogo Maschietto Editore)
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