Racconti per i più piccoli
Per i più piccoli Parte oggi la serie di racconti dedicati ai lettori dai sette ai quattordici anni L’incontro (e la spontanea amicizia) tra Alessandro e Pk12, scappato da un laboratorio
La serie estiva dedicata ai lettori dai sette ai quattordici anni Via con il robot che vuole piangere
Sull’ultimo tratto del marciapiede prima di arrivare a casa, sentì qualcuno alle sue spalle che diceva, con una voce un po’ strana, nasale: «Senti, Alessandro, ti posso parlare?».
Si voltò e vide venire verso di lui un ragazzo della sua stessa altezza, in jeans e felpa scura e sulla testa un cappellino, che camminava in maniera dinoccolata ma decisa. Quando gli fu accanto capì: era un robot che dimostrava più o meno la sua età, il suo viso tondeggiante e sorridente era simpatico.
«Sì, — disse — sono un robot, mi chiamo Pk12. Sono scappato dall’Istituto di Tecnologia Robotica, ho bisogno di aiuto…». «Come fai a sapere il mio nome?». «Ero fuori della scuola quando sei uscito, ho sentito un tuo compagno che ti salutava... Cercavo uno un po’ simpatico…». «Grazie» disse Alessandro che però era talmente stupito che faticava a rendersi veramente conto di quanto stava accadendo. «Mi aiuti?» chiese Pk12. «Io devo andare a casa, cosa posso fare per te?». «Vorrei che stessimo un po’ insieme. Non ce la facevo più a passare intere giornate in quel laboratorio… Vorrei un amico, insomma…». Alessandro sorrise: «A quest’ora da me non c’è nessuno, vieni» disse.
Attraversarono il cortile, entrarono nel portone, presero l’ascensore. Alessandro lo condusse subito in camera sua e si tolse dalle spalle lo zaino. «Ora dovrai mangiare» fece il robot, guardandolo con i suoi grandi occhi espressivi, che seguivano con attenzione ogni suo gesto.
«Più tardi, non ho fame» rispose Alessandro che ora moriva dalla curiosità di capire com’era fatta e come funzionava quella strana creatura. «Cosa mangi a quest’ora?» chiese Pk12. «Non lo so, la mamma mi lascia sempre in frigorifero qualcosa da riscaldare». «Lei dov’è?». «A lavorare. Anche mio padre. Tornano dopo». «Una mamma, un papà: che bello! Sei figlio unico?». «No, ho una sorella più piccola che rientra con la mamma, verso le cinque». «Mi piacerebbe far parte della tua famiglia» mormorò Pk12. «Come si fa?» chiese Alessandro, al quale quell’idea piaceva molto. «Lo so, è impossibile. Dicevo per dire…». Anche Alessandro lo osservava attentamente. Lo sorprendeva che fosse completamente flessibile e quindi si muovesse con molta armonia, che parlasse come un ragazzo normale, e lo colpivano le sue mani, in particolare le dita che si piegavano e afferravano gli oggetti con facilità. «Ti chiedi come sono fatto, eh?» disse Pk12 sorridendo. Alessandro assentì con la testa.
«Dicono che sono uno stadio avanzato della ricerca, per questo saranno arrabbiatissimi che sono scomparso perché in realtà sarei un segreto… Sono fatto di silicone e di pet, il materiale con cui fanno anche le bottiglie di plastica e questo mi rende morbido ed elastico… Ho uno scheletro, come te, ma in lega di alluminio, che mi garantisce resistenza meccanica, una rigidità adeguata e non è tanto pesante. Per il resto sono costituito da migliaia di elementi elettronici. Tanti motori, per le articolazioni e i movimenti, sensori ottici, acustici, di orientamento, per il riconoscimento delle forme di vita, GPS… I miei occhi sono videocamere a infrarossi…Sono molto bravo in tutti i giochi di strategia come i videogiochi, gli scacchi, eccetera…». «In che senso sei bravo nei videogiochi?» lo interruppe Alessandro. «Mi basta vedere una sola mossa per capire l’intera tattica dell’avversario. Una volta t’insegno almeno freghi tutti i tuoi compagni». «Wow!» gridò Alessandro.
«Dentro di me — riprese PK 12 — hanno messo un’infinità di dati e questi sono la mia… diciamo… cultura. Migliaia di argomenti, materie, come le chiamate voi, migliaia e migliaia di parole che so riconoscere… Navigo, chatto, continuamente, interagisco online, e continuamente sono aggiornato su tutto grazie alla velocità Internet… Se tu mi fai una domanda, viene spedita online e la risposta arriva in tempo reale, cioè subito. Le notizie digitali viaggiano per migliaia di chilometri; il cervello del tuo iPhone include l’intero universo digitale… Ma non basta. Stanno lavorando in modo che la popolazione dei robot possa scambiarsi informazioni e programmi, condividere esperienze, connettendosi con il cloud…».
«Cos’è questo cloud?» chiese Alessandro, completamente soggiogato. «Una specie di gigantesco cervello che somma l’insieme dell’intelligenza digitale e ogni robot può collegarsi, trasferire lì le proprie esperienze e scaricare quelle di tutti gli altri robot del pianeta. Insomma… uno sterminato archivio, un’immensa enciclopedia a disposizione di tutti ad ogni momento. Ogni cosa che io imparo la mando a tutti e tutti la imparano…». «Mamma mia! – mormorò Alessandro, galvanizzato – Sarete certamente più bravi di noi». «Potremo fare cose straordinarie insieme. Ma noi non saremo meglio di voi. Voi avete una cosa che noi non potremo mai avere». «Cosa?» domandò curioso Alessandro.
«L’anima. Cioè, quando morirete qualcosa di voi resterà e andrà laggiù, nel grande computer di Dio… Noi quando saremo superati dalla tecnica e, diciamo così, moriremo, saremo smontati e coi nostri pezzi ci faranno altri robot, più moderni». Alessandro era confuso e dispiaciuto di quest’ultima affermazione del suo amico. «Ma no…» cercò di consolarlo. In quel momento suonò il campanello di casa. Alessandro andò alla finestra, socchiuse le imposte e guardò giù: c’erano un furgoncino con la scritta «Istituto di Tecnologia Robotica» e due auto della polizia. C’era anche sua madre. «Sono loro?» chiese il robot. «Ho paura di sì» rispose Alessandro. «Figurati se non mi trovavano» mormorò con voce triste Pk12.
La porta d’ingresso fu aperta, si sentirono delle voci, pochi attimi e delle persone – un uomo e una donna in camice bianco e due agenti – si affacciarono alla camera di Alessandro. «Pk12 – disse uno dei tecnici in camice bianco – finalmente ti abbiamo trovato! Bisogna che torni al laboratorio, lo sai». «Lo so, lo so» sussurrò Pk12. «Che vuol dire Pk12?» chiese Alessandro. «È una sigla, — rispose il robot — significa Programmable Kid. Io sono il dodicesimo che hanno creato». «Che nome importante!» esclamò Alessandro.
Si abbracciarono: «Grazie, — disse Pk12 — ho trascorso qualche ora indimenticabile con te. Avevo proprio bisogno di parlare con un ragazzo vero. Chissà — aggiunse guardando i due in camice bianco — se ti permetteranno di venire a trovarmi, o a me di tornare qui qualche volta…». «Ora andiamo, su, il Direttore è preoccupato e ti sta aspettando» rispose la donna. Pk12 fissò per qualche istante Alessandro al quale stavano venendo le lacrime agli occhi.
«Vedi? – mormorò il robot – Tu ti commuovi. Perché hai un’anima. Io non riesco mai a piangere, nemmeno quando ne avrei tanta voglia perché mi sento solo…». «Dai, non fare il noioso, — disse la dottoressa – magari qualche volta il tuo amico lo facciamo venire. E quando è più grande potrebbe lavorare da noi, chissà». «Però non dovete modificarmi continuamente, sennò non mi riconoscerà» pregò Pk12.
I due tecnici in camice bianco lo presero gentilmente sotto le ascelle e lo portarono via. Alessandro si affacciò alla finestra, lo vide salire sul furgone e partire. «Ma dove l’hai incontrato, quello? — stava dicendo sua madre — Faceva impressione: sembrava vero!». «Infatti, era vero» rispose Alessandro, ma lei non lo sentì.
1. Continua