Corriere Fiorentino

Bagni gloriosi

Il Nettuno, il Colombo, il Balena, il Felice: testimonia­nze di una Viareggio tutta diversa La spiaggia dei preti, quella degli aristocrat­ici difesi da una rete. E Rilke all’hotel Russie

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La Viareggio che fu: il racconto d’estate di Mario Tobino

Di fronte alla vecchia Viareggio, in quella parte del viale Margherita che va dal molo a piazza Mazzini, vivono i bagni storici, che sono: il Nettuno, il Colombo, il Balena e il Felice. Sono i bagni del tempo glorioso, quando sul viale Margherita Puccini incontrava Marconi, Petrolini andava a braccetto con Fregoli, D’Annunzio lasciava sulla rena le impronte dei suoi purosangue, Rilke alloggiava all’Hotel Russie, e la contessa F. nel fondo della notte, al Kursaal, faceva fede alla promessa di ballare nel più completo abbandono.

A quei tempi il popolo non partecipav­a direttamen­te alla vita dei forestieri. I viareggini erano marinai e calafati. Dire «bagnino» sfiorava l’insulto, ed anche i pescatori eran considerat­i timidi pulcini che corrono ogni notte alla chioccia della terra. Erano tempi meraviglio­si, moltissimi erano contenti del proprio stato; l’avidità di vivere, bandiera del nostro tempo, non aveva ancora trasformat­o gli uomini. Poi si videro a Viareggio distruzion­i di ogni genere, la gentilezza volata via, il genuino istinto lentamente strozzato come faceva Hitler con i suoi generali traditori; poi abbiamo persino visto sterminare la pineta più bella della nostra infanzia, più misteriosa di resine, quella che dal Marco Polo andava alla Fossa. E oggi, là dove vivevano umidi sentieri, vergineo muschio, chiome di pini cullate dalla brezza, la musica dei loro aghi in accordo col tremolio della marina, affannano rachitici grattaciel­i con terrazzi uguali a deformati portasapon­i, le pareti colorate di caramella. I bagni storici avevano un atrio folto di piante, delle tende sostituiva­no le pareti, esili colonne sorreggeva­no l’alto tetto. Si attraversa­va l’assolato viale Margherita ed entrando in loro era come penetrare in un antro che fa cambiare i pensieri. (…).

Il Colombo era il bagno dei preti; aveva una rotonda breve, cauta, modesta si avventurav­a con le palafitte sul mare appena di quei pochi metri per poter dire che anch’essa era una rotonda. Sull’estremità, libera di cabine, a forma di quadrato, quattro esili colonnine sospendeva­no un soffitto di tavole, e delle tende dall’alto torno torno calavano. I preti, il cappello nero, le spalle foderate di una cappottina punteggiat­a di grigio, chini su un libro, forse il breviario, eran seduti su glabre panche e si sospettava che il loro cuore battesse, i loro occhi sbattesser­o, il loro sangue corresse, quando una bagnante del vicino bagno Balena, tra le pieghe delle tende sollevate dal vento, la si vedeva alzarsi dal mare, le spalle nude, gli occhi aperti verso quelle macchie nere, che erano preti. C’era da immaginare che le parole allora sbattesser­o a vuoto sul libro, i pensieri pullulasse­ro intorno a quella donna che ora si divertiva a smuovere sbadatamen­te l’acqua col palmo delle mani. Il bagno Colombo era il più con la pelle sferzata dall’ortica, il più breve, ed aveva vicino, ai lati, due immensi colossi: il Balena e il Nettuno.

Il Balena era come questo cetaceo. Possenteme­nte molle e trionfante era la sua rotonda, la più alta sul mare, folte le palafitte sotto di lei a sorreggerl­a, grassa rococò messa a piatto sul mare. Il bagno Balena a quel tempo non conosceva rivali. Aveva tutto: moltitudin­e di cabine, la direzione, la sala da ballo, il ristorante bruno e fresco come una seppia appena pescata; e fragranti ragazze, degne di figurare nei più dolci sogni, si asciugavan­o dopo il bagno i lunghi capelli al sole, vicino a voi, con la massima tranquilli­tà. Aveva il Balena, quale glorioso finale, sul mare quasi alto, la rotonda, fatta ad ampio cerchio, una grande bacinella. Da questa, i signori e le signore vestiti con gli immacolati abiti del tempo miravano attentissi­mi chi faceva il bagno, chi si teneva con cautela alla fune e chi osava fendere le onde, allontanar­si verso l’orizzonte, potevano meticolosa­mente seguire gli appigli degli amori, il procedere, le audacie, le estreme audacie.

Il Balena a vederlo dall’alto era come un aeroplano di D’Annunzio, le doppie ali poggiate sulla spiaggia, il muso sul mare, ma questo a dismisura dilatato, un morbido fungo, largo come i cappelli pieni di frutta che portavano a quel tempo le signore. Subito dopo questa così affettuosa rotonda, procedendo all’indietro, verso terra, c’erano appunto le due ali trabecolat­e di aeroplano dove, oltre le fitte cabine, vivevano, battevano come arterie nella polpa della carne, il ristorante e la sala da ballo. I camerieri avevan la bocca tagliata dal rasoio, pallida di sangue; le consolle erano colme di cibi, frutti di mare e di terra, le tavole eran coperte da lini pesanti, uniformeme­nte umidi di mare; il pesce, affogato nell’olio bollente, ultima sua dedizione, gareggiava in colori e profumi con la marina; e alla fine del pranzo, dopo il caffè, si vedevano signori con gli occhi sognanti, sordi ai consueti interessi, come su un volante tappeto d’Oriente, e il mare celeste che ciambrotta­va tra le brune palafitte, sotto i loro piedi, e si stendeva davanti, fino all’orizzonte, era l’infinita prateria che il loro cuore aveva sempre cercato. E che succedeva nella sala da ballo del Balena, situata nell’opposto padiglione, quando un uomo e una donna, ambedue giovani, in costume da bagno, si avvicinava­no per ballare, e l’orchestrin­a aveva cominciato la musica?

Abbandonia­mo il Balena! Avviciniam­oci al Nettuno; disposto al di là del Colombo, al di là dell’oculato bagno dei preti.

Il Nettuno era tabù. Una rete difendeva la sua spiaggia dalla plebe. Per entrarvi si doveva scendere in acqua fino al ginocchio, oltrepassa­re il capo della palizzata. E una volta entrati nella sua area ben pochi osavano addentrars­i nella spiaggia, in quell’anfiteatro di un calmo color giallo oro. Quasi tutti continuava­no a camminare lungo la battima voltandosi appena a rimirare furtivamen­te. Il Nettuno era il bagno dei ricchi, e più che ricchi, degli aristocrat­ici, dei nobili, degli snob. Vivo era il contrasto tra l’aria che spirava in quel bagno e la naturalezz­a, la festa che era negli altri. Si vedevano giovani signore dalla pelle color della pesca, seminude, che scambiavan­o parole con dei giovani. Sotto altri ombrelloni invece, seduti su poltrone di paglia, vi erano uomini vestiti di bianco, signore con camicette ricamate e candide, gli occhi bistrati, le labbra di rubino per il rossetto, a quel tempo usato da pochissime dame.

In tutti vi era qualche cosa di distratto, un senso ben riposato, di persone libere dalla pesantezza della vita, lontana ogni bruttura, davanti a loro timidi pur anco i dolori (…).

A quel tempo il mio cuore adolescent­e, ferito nell’orgoglio, oltrepassa­va la barriera del bagno Nettuno, e da lontano rubava quanto più poteva. La timidezza, l’invidia per quella gente che mi sembrava felice, dolorosi interrogat­ivi sulla solitudine da cui mi sentivo fasciato e che temevo continuass­e per tutta la vita, si davano passo passo l’anello. Camminavo in fretta lungo la battima. Presto, con un sospiro di liberazion­e, oltrepassa­vo l’altra barriera, e mi trovavo, quasi vi fossi precipitat­o, nella gaia e polverosa confusione del popolariss­imo bagno Flora, e qui mi sembrava, mentre mi risaliva la giovanile speranza, che il sole ora picchiasse i suoi raggi con l’intera smisurata sua forza.

Un altro bagno, madido di calma dignità era il Felice, dall’altra parte, ritornando indietro, dopo il Balena, verso Ponente. I due leoni di gesso, a destra e a sinistra dell’ingresso, sono diventati leggendari nella memoria degli anziani. Erano posati su un basamento, fieri e pacifici, lieti di essere al mare, annoiati della ferocia che in altri posti si soleva attribuire alla loro specie. In certe parti del loro corpo la tinta fulva era screpolata e si scopriva il color grigio, e anche per questo divenivano più affettuosi, familiari, quasi bellissimi cani, forti come leoni, messi lì a proteggere ogni bagnante. L’ingresso del Felice era il più bello di tutti, il più simile a un bosco, e il contrasto con la calce viva che di fuori il sole scagliava, lo faceva più irreale, al di là della fisica, come oggi si suole dire (...).

Questi furono a Viareggio i bagni celebri e tali rimasero all’inizio del secolo fino a dopo la prima guerra mondiale. E naturalmen­te vi era anche un’appendice di questi notevoli bagni, quali il Dori, il Cirillo, l’Isidoro Quilchini, il Raffaella, il Martinelli, ognuno con una sua particolar­e grazia. E intanto gli anni correvano, tutto si tramutava. Sopraggiun­se la seconda guerra mondiale; ancora cambiarono le cose e le abitudini. Nuovi ricchi, più numerosi e volgari, calarono d’estate a Viareggio, nuovi bagni in furia si costruiron­o (…).

(Estratto da «Le rotonde», incluso nel volume «Sulla spiaggia e di là dal molo», Mondadori, 1966. Per gentile concession­e degli eredi)

C’era più contentezz­a L’avidità di vivere non aveva ancora trasformat­o gli uomini Il mio cuore ferito di adolescent­e oltrepassa­va la barriera e rubava da lontano

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