Corriere Fiorentino

In quella notte maledetta

Stasera a Palazzo Pitti uno spettacolo ricorderà la distruzion­e dei ponti fiorentini Cronaca di un incubo durato sei ore. E della sconfitta di chi cercò invano di salvare arte e storia

- Enrico Nistri

con letture da testi di Anna Banti, Nello Baroni e Giulio Bencini. Musiche dal «War Requiem» di Britten. A seguire il

Se c’era, a parte Roma, una città italiana i cui abitanti erano convinti di essere protetti dalle ferite della guerra, questa era Firenze. L’Urbe è la città santa, ma Firenze è consacrata a quella civiltà del Rinascimen­to cui gli anglosasso­ni sono da sempre sensibili. Per rendersi conto di quanto tale speranza fosse diffusa basta un dato. Mentre i principali centri assistevan­o allo sfollament­o degli abitanti verso la campagna o i centri minori, secondo stime del Comitato toscano di liberazion­e nazionale la popolazion­e di Firenze dal 1940 al ’44 era raddoppiat­a, sfiorando il mezzo milione. Ben pochi di questi neo-fiorentini avrebbero immaginato di dover sfollare a loro volta, con un modesto preavviso, sia pure in luoghi di rara bellezza come Boboli e quel cortile di Palazzo Pitti che stasera sarà teatro di una commovente rievocazio­ne.

Per i fiorentini, la notte fra il 3 e il 4 agosto è la notte dei ponti: la notte in cui i genieri tedeschi fecero saltare tutti i ponti sull’Arno, ad eccezione del Ponte Vecchio. Si concludeva così un’incredibil­e vicenda iniziata pochi mesi prima, quando Kesselring aveva proclamato unilateral­mente Firenze città aperta, com’era avvenuto per Roma. Gli alleati non avevano mai riconosciu­to tale decisione e il generale Alexander aveva scelto di penetrare nel cuore della città passando per via dei Serragli, invece di aggirare Firenze con una manovra avvolgente. La decisione era dettata da motivazion­i meno militari che propagandi­stiche: dopo che gli americani erano entrati trionfalme­nte a Roma e i francesi a Siena, gli inglesi non potevano contentars­i di «liberare Empoli». Che le conseguenz­e sarebbero state gravi, lo capirono I fiorentini attraversa­no le rovine del ponte alle Grazie nell’estate del ‘44: una rara foto a colori dell’Imperial War Museum di Londra in molti: Piero Calamandre­i nel suo diario annotava: «Non si sa se siano più infami i tedeschi o più imbecilli gli alleati: pensare di prendere Firenze così, passando per Porta Romana».

Di fronte a quella strategia il maresciall­o Kesserling, che aveva bisogno di rallentare l’avanzata alleata per arroccarsi sulla linea difensiva infeliceme­nte battezzata Gotica, finì per emulare i Vandali, facendo saltare i ponti. Sapeva che la decisione avrebbe gravemente nociuto all’Asse da un punto di vista propagandi­stico, come la distruzion­e dell’abbazia di Montecassi­no aveva nociuto agli Alleati. Ma gli ordini venivano da Hitler e a pochi giorni dall’attentato del 20 luglio, con tanti alti ufficiali della Wehrmacht che penzolavan­o impiccati a ganci da macellaio, non conveniva disattende­rli.

I tedeschi il 29 luglio ordinarono agli abitanti dei quartieri prospicien­ti l’Arno di abbandonar­e le abitazioni. Si sconsiglia­va di sgomberare il mobilio, ma furono in pochi a essere rassicurat­i e lunghe file di carretti, alcuni noleggiati a prezzi di strozzinag­gio, anche a 4000 lire dell’epoca, abbandonav­ano il centro della città, nonostante gli inviti dei partigiani a disobbedir­e all’ordine. Gli abitanti dell’Oltrarno confluivan­o verso Palazzo Pitti e Boboli, dove molti di loro trovarono rifugio per notti all’addiaccio, assistiti da don Bruno Panerai, parroco di San Felice.

Nella notte fra il 30 e il 31 luglio genieri tedeschi arrivarono a Firenze con camion pieni di cassette gialle cariche di esplosivo. In un primo tempo fu minato anche Ponte Vecchio, ma poi prevalse la scelta di risparmiar­lo, facendo saltare però gli edifici adiacenti, fra cui molte case torri cariche di storia. Fu una decisione di Hitler, che l’apprezzava per il suo aspetto goticheggi­ante più del rinascimen­tale ponte a Santa Trìnita, o merito del console tedesco Wolf? Non lo sapremo mai.

Quel che è certo, la notte fra il 3 e il 4 agosto i tedeschi eseguirono con teutonica precisione gli ordini. Per primo, alle 22 saltò il Ponte alle Grazie, ma la maggior parte delle esplosioni fu tra le 2,30 e le 4. Per ultimo fu demolito il Ponte alla Vittoria, che era servito ad assicurare il passaggio delle truppe germaniche in ritirata. Il tentativo di un commando partigiano di salvare quest’ultimo e il ponte alla Carraia tagliando i fili che collegavan­o le mine alla stazione di brillament­o si scontrò con la reazione tedesca. La violenza delle esplosioni fu terribile: da lontano qualcuno pensò che non fossero saltati solo i ponti, ma tutto il centro. Alla perdita dei ponti si aggiunse quella delle case torri delle più antiche famiglie fiorentine, ubicate intorno al Ponte Vecchio. Molte di esse erano rimaste pericolant­i dopo l’esplosione, ma la fretta di passare l’Arno indusse i britannici a completarn­e la demolizion­e, nonostante gli sforzi del tenente e storico dell’arte statuniten­se Frederik Gregory Hart, che cercò invano di opporsi allo scempio. Non fu il solo a scontrarsi con i superiori per salvare un’0pera d’arte: anche alcuni ufficiali tedeschi avevano cercato di salvare le statue del Ponte a Santa Trìnita e non c’erano riusciti solo perché mancavano i mezzi. Nel groviglio di passioni della guerra, fa piacere ricordare che in tutti i campi vi furono persone disposte a porre le ragioni della bellezza innanzi a una presunta ragion di Stato.

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