NON È L’ARNO IN SECCA IL NEMICO N.1 DI SCHMIDT
No, non è il caso di risolvere tutto prendendosela col galleggiante cinico e baro o con l’infingardia della falda, o con l’Arno, questo «torrentaccio rovinoso» che nel Settecento Giovanni Targioni Tozzetti avrebbe voluto infognare, com’è stato fatto nel dopoguerra con l’Affrico.
Dietro al black out dell’impianto di condizionamento degli Uffizi, indispensabile al benessere dei visitatori e alla conservazione dei dipinti, c’è un concorso sfortunato di circostanze, ma anche un complesso di colpe che va ben oltre il caso in questione. C’è un impianto di climatizzazione che, se non risale ai tempi del Vasari, è senza dubbio datato, anche se a realizzarlo fu un’azienda di tutto rispetto come l’impresa di quel galantuomo del conte Danilo De Micheli. Ma c’è anche la tendenza a differire i problemi, a illudersi che la notte porti consiglio non solo agli umani, ma anche agli impianti sanitari. E a frammentare e di conseguenza a diluire le responsabilità in un groviglio di competenze tecniche, burocratiche, politiche. Eike Dieter Schmidt è uscito vincitore del concorso internazionale voluto dal ministro dei Beni culturali Franceschini — con una decisione che ha deluso le pur legittime aspettative di valenti studiosi italiani — anche perché ritenuto latore di un approccio più pragmatico e meno giuridico-formale alla gestione di una grande pinacoteca. Molti suoi comportamenti non hanno deluso queste aspettative: dalla guerra ai bagarini al disegno di prospettare itinerari differenziati in base agli interessi dei visitatori, dal coraggio di scendere sul campo, mescolandosi ai turisti in coda, alla decisione di differenziare stagionalmente i prezzi dei biglietti a seconda della maggiore o minore affluenza. Una proposta alla Booking.com, che non manca di una sua logica, anche se può scandalizzare chi vede nei musei un valore culturale più che un bene da commercializzare secondo logiche di mercato e magari rimpiange i tempi in cui l’accesso ai musei era gratuito e gli artisti poveri stazionavano con i loro cavalletti davanti ai capolavori, a dipingere copie per i ricchi americani in vacanza in Europa. Di questo approccio pragmatico Schmidt dovrà e senz’altro saprà dare prova anche dinanzi al problema di un impianto di condizionamento se non obsoleto quanto meno problematico, dipendente dai capricci del clima e bisognoso, in caso di necessità, di costose trasfusioni d’acqua. Certo, non si può pretendere che uno storico dell’arte sia al tempo stesso fontaniere e ragioniere, esperto di relazioni sindacali e di ingegneria idraulica, nonché, al bisogno, di idrografia. Ma per gestire una realtà complessa come un grande museo è fondamentale quella dote innata di coordinare scienze ed esperienze eterogenee, tipica della funzione dirigenziale, che costituisce la differenza specifica fra un manager e un grattacarte. Il direttore Schmidt dovrà dimostrarla al sommo grado, ma per farlo dovrà capire, sempre che non l’abbia già fatto, che il peggior nemico degli Uffizi non è la capienza altalenante dell’Arno, ma la tendenza tipica di tutti gli «uffizi» pubblici a nascondere i problemi sotto il tappeto. E poco importa se si tratta di un prezioso arazzo del Seicento.