I CEROTTI DEI DUELLANTI PER LE DAME DEL MARE
Ai Bagni Pancaldi per le signore c’era una gerarchia precisa, dalle primedonne alle calìe E gli uomini? Uniti da un unico obiettivo: dare l’assalto a quelle fortezze. All’alba le sfide
Per tutta la seconda metà dell’ottocento e fino alla fine del secolo, Pancaldi fu durante l’estate il luogo di tutte le delizie e di tutte le primizie mondane. Sul vecchio stabilimento balneare, i cui tendaggi cigolavano al vento o manovrati come vele dalle braccia villose dei bagnini, era un grande diadema luccicante. Luccicare di sciabole, di monocoli e di gemme. Non passava anno che non vi fiorissero tre o quattro duelli, ed altri vi venivano seminati che fiorivano più tardi nelle varie città d’Italia durante l’inverno. I duelli si facevano segretamente, all’alba, in parchi o giardini di amici, vi si andava in quelle carrozze nere, grandi e opache, che servivano per i matrimoni e i funerali, solamente coloro per le quali gli uomini si sciabolavano n’erano a cognizione o ne avevano il presentimento. La notizia circolava in Pancaldi la mattina a cose fatte, e un brivido di emozione prima; e dopo di curiosità, serpeggiava per lo stabilimento all’arrivo dei duellanti che cercavano di nascondere con disinvoltura un braccio impedito dalla ferita, o mostravano, più raro il caso, un cerottino sulla faccia o per il collo. Si levava un mormorio simile a quello del mare, e che si agghiacciava soltanto all’apparizione dell’eroina. Compariva di solito molto tardi; la sera verso le sei, poco prima del tramonto, quando lo stabilimento era al completo. Incedeva lentamente, severa, reggendosi lo strascico un po’ stanca e molto circondata (come lasciarla sola nella prova durissima?) e con un sorriso mantenuto sul labbro a caro prezzo, anche se la spesa reale era relativamente modesta, e che doveva nascondere un inferno nel cuore anche se non c’era nulla. E gli occhi, che da parte loro non riuscivano a nascondere la traccia di una notte d’ansia e delle lacrime, non guardavano più la terra, ma il mare ... solamente il mare. Una cosa complicatissima di esecuzione ma di sicuro effetto. Era il tempo che voleva così. Appena passata si scioglievano le campane. Se si trattava di una donna già famosa, di una divinità di quell’olimpo, l’interessamento saliva al vertice, se era invece una della penombra quel fatto decisivo la poneva di colpo in piena luce.
E ora vi dirò come si componessero le gerarchie femminili di Pancaldi. Ce ne erano una diecina, o poco più, che erano le protagoniste; in lotta serrata fra loro: erano le prime donne, per lo splendore del casato o per la loro bellezza, la ricchezza delle vesti e l’eleganza del portamento, la magnificenza dei gioielli e lo stato di servizio. Di queste bisognava che col fegato o col cuore si occupassero tutti, e non chiedevano di meglio, erano lì per quello. Ed una ventina o trenta che formavano un’altra cerchia; erano le seconde donne, di cui ci si occupava a seconda, più blandamente. Mentre per le prime la febbre della curiosità era quartana, per queste era intermittente. E c’erano poi le altre, alcune centinaia, che formavano il contorno, le comparse, il coro, il commento raramente benevolo.
E c’era finalmente un quarto genere, genere neutro, a sé: le calìe, che circolavano senza adesione né assorbimento. L’ottocento fu pieno di questa specie di persone. Che cos’erano le calìe, mi chiederete giustamente. Erano creature disappetenti e apparentemente disappetite, sonnolente; che in mezzo alla ricchezza portavano l’occhio smorto del mendìco, con una bocca che pareva avesse buttato giù il purgante un minuto prima, e al centro di un’orgia di profumi parigini pareva che le loro narici accusassero l’odore, chiamiamolo cosi, di un’innominabile cosa. Gente siffatta, mi direte, avrebbe fatto meglio a restarsene a casa, macché! erano sempre in mezzo, in prima fila, al migliore posto, e non perché ve le spingesse la loro scelta o iniziativa, neanche per ombra, ma perché appariva chiaro essere quello il luogo peggiore dove la fatalità avesse potuto collocarle. Immancabili e irriducibili te le trovavi fra i piedi dappertutto.
Attraversando la strada pareva sempre che dovessero rimanere sotto una carrozza e non ci rimanevano mai, si salvavano per un pelo. Pareva che non avessero mai voglia di mangiare e con quella bocca repellente mangiavano per tre. Se le stavi a sentire non ti parlavano che di disgrazie, di cose andate male, avevano avuto tutte le malattie, erano state venti volte lì per lì per morire e erano sempre vive, erano caduti loro addosso i tegoli e le persiane senza scalfirle, avevano ingoiato i funghi avvelenati, le ostriche marce, carne di gatto, di cavallo, di rospo, e pagata a peso d’oro nelle migliori trattorie, bevuto acque infette e non avevano avuto un dolorino di viscere; irriduscibili e indistruttibili, pareva che le viscere dolessero loro sempre (…).
La gerarchia degli uomini a Pancaldi era una sola, una l’aspirazione: dare l’assalto cavallerescamente e romanticamente a quelle fortezze più o meno espugnate. Su quelle rotonde, cosi dette, una per il venticello della mattina, un’altra per trascorrervi le ore del pomeriggio, e sul piazzale davanti alle sale del circolo e del caffè, lungo il viale fin quasi all’ingresso, le signore a gruppetti o a circoli sedevano impettite, e i cavalieri spolveravano la seggiola col fazzoletto prima che si mettessero a sedere, conversavano compostamente, protendendo il busto affusolato verso l’interlocutore; qualche volta per dire od ascoltare una parola a bassa voce, di quelle saporite e a cui il mistero aumentava il sapore; o addirittura col gesto e con lo sguardo che sostituivano le parole più discrete. Nascondevano un sorriso sotto il ventaglio che agitavano con grazia e malizia: loquacemente, quando tacevano esse, lo aprivano e chiudevano loquace; o abbandonandosi sulla sedia, con quello si coprivano il viso per nascondere un eccesso d’ilarità (…).
Parevano tanto perbene tutte quelle signore, così virtuose e riservate, e modeste nella loro eleganza, anche quelle di cui si parlava piano (che cosa si diceva?) o per cui si scambiavano occhiate intelligenti (che facevano di male?): quelle per le quali i maschi facevano i duelli (perché?): anzi, quelle parevano più perbene di tutte; specchiatissime. Gli abiti lunghi a coda, le facce sotto il velo, quasi impiccate nell’accollatura che arrivava agli orecchi, il contegno irreprensibile e impenetrabile. Che cos’erano certe parole che udivo a caso o sorprendevo nel circolo di mia madre? Indizi, bagliori; prime luci ... E nel bagno apparivano più perbene che mai. Non erano di moda le spiagge con la salutare cura del sole, e le belle passeggiate in costume da bagno sull’orlo delle onde, la nudità salutare dei giorni nostri che porta alla calma e all’indifferenza naturalmente, qualche volta al disgusto, naturale anch’esso; le cabine dei Pancaldi erano costruite dentro l’acqua e dove l’acqua era già alta un metro o poco meno, circondate da tende e con scalette interne, tanto che si poteva fare il bagno senza uscirne, come in una tinozza, senza farsi vedere. Le dame vi scendevano non viste, e alzando la tenda con due dita cacciavano fuori la punta del cappellino in quell’abbraccio fiutando l’aria. Portavano il cappello a sporta, a pala o a cuffia, generalmente guarnito di grandi fiocchi destinati a non infradiciarsi; il costume come un vestito, accollatissimo, le calze, le scarpette e perfino i guanti. Facevano una giratina fuori, nel recinto circondato dalle cabine, come dentro una vasca, nuotando dolcemente col gesto di abbracciare il mare, e ad ogni passo sottraendo la faccia all’assalto lieve dell’acqua come per rifiutare un bacio in quell’abbraccio; rientravano composte (...).
Estratto da «Stampe dell’800» © 2015 Mondadori Libri S.p.A., Milano. Per gentile concessione del Centro Studi Aldo Palazzeschi e dell’Editore
L’eroina di turno appariva verso sera e incedeva severa, guardando l’orizzonte Le cabine erano costruite dentro l’acqua circondate da tende e con scalette interne