«Paghiamo errori di 30 anni fa Mixare piante riduce i rischi»
Il paesaggista Girot: non aspettiamo le catastrofi per cambiare
«Proposi un progetto ad un sindaco francese e lui mi disse: come saranno questi alberi tra cinque anni, per le elezioni? Gli risposi: guardi che lei deve pensare a come saranno tra 100 anni». Christophe Girot è uno dei paesaggisti più noti d’Europa e con noi ragiona sull’ «operazione alberi» di Palazzo Vecchio. Non si stupisce dei tanti tagli decisi dal Comune: «Li fanno in tutta Europa. Bisogna capire che la fase che attraversa Firenze è una grande opportunità, se colta bene. Ma queste scelte cambiano il paesaggio urbano. Per questo ci vuole cautela e cura. Soprattutto cura». E lancia tre principii generali per il «cambio» degli alberi.
Il primo è quello della scelta tra alberi «indigeni» e «esotici», «senza dimenticare che molti degli alberi che fanno il paesaggio della Toscana (ulivo, cipresso, vite) non sono autoctoni ma importati millenni fa». È un processo dinamico, insomma, quello di cui tenere conto. Evitando gli errori. Ed è il secondo tema. Perché se è vero che in Europa il «ricambio» degli alberi è maggiore che in Italia, di sbagli ne sono stati fatti molti anche Oltralpe. «Nelle banlieu di Parigi, negli anni ‘50, introdussero salici perché crescevano in fretta. Oggi cadono al primo vento».
Qui si apre l’analisi del terzo «paletto» su che alberi (e dove) piantare. L’«operazione alberi» a Firenze arriva dopo due episodi gravissimi, di cui uno,
Un sindaco francese, mi disse: come saranno questi alberi tra 5 anni? Gli risposi che doveva pensare a come sarebbero stati tra 100 anni
quello del primo agosto del 2016, legato ai cambiamenti climatici. «È ovvio che la scelta dell’albero dipende da una seria valutazione su come cambia il clima» spiega Girot. Alcune specie, pur scelte da Palazzo Vecchio, potrebbero non essere più adatte alla città. «Ho dei dubbi — ragiona Girot — sui tigli. Firenze, ormai, è al limite sud per questa pianta:soffre moltissimo se le estati superano frequentemente i 35 gradi». Dirlo quando a Firenze da una settimana siamo oltre 40, fa effetto. Mentre «l’acero campestre è una buona scelta se non c’è asfalto». In molti casi è stato scelto il Ginko biloba: «Ottimo, in ambiente urbano». Con avvertenza: «Cresce molto lentamente: per avere ombre importanti, occorrono 30 anni». Le ombre che ci sono ora attenderanno decenni. In alcuni casi andranno al posto di ippocastani, «che è giusto togliere dalle strade della città. Però con una valutazione attenta». Perché, appunto, sostituire alberi ormai grandi se non a volte giganteschi, «cambia il paesaggio. Certo, è successo prima, in tante città. Ma i cambiamenti avvenivano ogni 100 anni». Un po’ come per i pini, «che a me piacciono tantissimo, ma che in città sono un disastro». Ne sappiamo qualcosa a Firenze.
Il vero problema, secondo Girot, è che «siamo in un’epoca in cui l’impazienza conta troppo. Se avessimo fatto le scelte giuste 30 anni fa, con sostituzioni accurate, cura delle piante, scelte in prospettiva, non dovremmo aggredire il problema oggi. Ci vuole un cambiamento graduale. Non si possono aspettare le catastrofi per finanziare cambiamenti». Ma ora che siamo in ballo e che le catastrofi ci sono state?
«Evitiamo monoculture, tipo quelle che in Spagna e Portogallo hanno portato alla presenza di eucalipti dall’Australia, che hanno cancellato la biodiversità e creato problemi per il consumo di acqua e infine per gli incendi. Poi, meglio dei tigli, pensiamo ai lecci. Basta con i platani, ormai sono tutti malati». E infine, la vera chiave, secondo Girot: «So che le soprintendenze non lo amano, ma la vera soluzione, in questi tempi di cambiamenti climatici, è il mix: la scienza dimostra che la biodiversità è una ricchezza per il paesaggio ed una garanzia per le malattie degli alberi, si riduce il rischio di contagi e anche l’impatto sul paesaggio è minore in caso di tagli dovuti a questo problema».