LA CONQUISTA DEL CHIANTI, IL VINO FILTRATO DAI SECOLI
Dietro ogni calice c’è una storia e un paesaggio fatto di guerre, imboscate e fatica Con i tratti della vita dell’uomo: colline aspre e quasi remote, poi ordinate e serene
Per lungo tempo il «Chianti» è stato, per molti italiani, il nome nobile del vino, il vino per antonomasia, l’assoluto del vino. Ciò ha dato al Chianti un diffuso e popolare prestigio, ma ha avuto anche conseguenze negative, sia perché consentiva di contrabbandare sotto la protezione di quel grande nome vini diversi e mediocri, sia perché il generico ottunde la qualità che è specifica, soprattutto da che ci siamo fatti più curiosi ed esigenti, e si va in cerca di cru, di marchi, di annate (quando arrivai a Firenze per l’università, nella fiaschetteria Aglietti in piazza Re Vittorio Emanuele, ora della Repubblica, la gerarchia dei vini era stata stabilita sommariamente dai gradi alcoolici: mezza lira al bicchiere, «mescita», il più forte, forse il «Rufina di quattordici gradi» offerto a Montale da Bibe a Ponte all’Asse; trenta centesimi quello da dodici, un ventino il più fiacco, in genere «benedetto», vale a dire annacquato. Ma questa è ormai preistoria). Una simile ricerca dell’originario e dell’autentico giova al Chianti. Perché questo è da ricordare come fondamentale: coincidano o no i confini del Chianti storico con quelli della zona di produzione del Chianti classico, il Chianti è una storia e un paesaggio prima di essere un vino.
Sono stato anch’io «Legato», ascritto cioè alla Lega del Chianti, confraternita di uomini d’arme costituita nel Medioevo nel corso delle continue e accanite vicende di guerra tra Siena e Firenze. Nella mezza luce dell’abbazia romanica di Spaltenna, a Gaiole, la cerimonia si svolgeva con dovizia di cappe, tòcchi, spade, messali e pergamene. Campeggiava fiero e solenne lo stemma del Gallo Nero, eredità araldica lasciata dalla Lega trecentesca al moderno Consorzio, eredità e stimolo di orgoglio e forza.
Il paesaggio chiantigiano deve la sua suggestione all’essere di volta in volta aspro e quasi remoto, oppure ordinato e sereno. Somiglia in questo alla vita umana, che nella sua avventura ha giornate ridenti e corrucci, aperti respiri e oscuri segreti.
C’è una pagina di Bino Sanminiatelli che ci dà plasticamente il senso di tale polivalenza. Dalla sua mirabile villa di Villamaggio (edificata dai Gherardini, la famiglia cui apparteneva Monna Lisa, la leonardiana Gioconda) egli ammirava distendersi le colline «che hanno grazia di vigne e di olivi»; ma subito aggiunge, a rafforzare ma anche a correggere la morbidezza di quelle «grazie»: «corone di cipressi immobili, vittoriosi, stagliati nel sereno, come in una materia dura». Alla serenità è quindi immediatamente contigua la potenza del paesaggio, la sfida.
Conosco poche regioni nel mondo ove sia sensibile, fisicamente sensibile, la lunga fatica degli uomini per strappare palmo a palmo spa- zio umano a una natura ricca e avara, splendida e arcigna. Ancora oggi il bosco occupa quasi la metà del territorio: è un bosco ruvido, poco o nulla confidenziale o arcadico, querce, lecci, roverelle, legna compatta, da traversine ferroviarie, ove affiorano taglienti spunzoni di sasso. Terrazzamenti, canali, rogge, spianate, sono conquiste, lente e sudate di generazioni. Anche il vino è un valore di conquista; e sembra saperlo anch’esso: si mantiene gagliardo, severo, sanguigno, come certi gentiluomini di campagna di una volta, che sapevano essere aristocratici e insieme popolari, di semplicità contadina e di raffinata cultura. È un vino filtrato dai secoli: guerre, imboscate, la gloria del Te Deum e solitaria fatica. L’immagine letteraria che conservo più congeniale a questa terra è quella di Federigo Tozzi, contestatore naturale, genio impaziente e collerico, che ne attraversa metà, in bicicletta, da Siena a Greve, e arriva irsuto, sudato, polveroso, per abbracciare il fraterno amico Domenico Giuliotti, «cattolico belva». Terra selvaggia e amorosamente custodita, terra di memoria tenace, di rabbia e di splendore: questa è la terra, antica, del vino.
Bastarono pochi anni di crisi per minacciare il Chianti di morte, verso il ’60. Distrutta la mezzadria, trascurati gli olivi, abbandonati i poderi, vuotate le stalle, invase le colline selvose dall’ispido sottobosco, neglette le opere di contenimento delle acque, il Chianti prese un aspetto desolato, lunare, interrotto qua e là dal lento migrare delle greggi ovine. Ma anche nel tempo distratto in cui viviamo quell’abbandono apparve ben presto un peccato intollerabile. Onde una sorta di seconda nascita del Chianti, oggi laboratorio di avanzate tecnologie enologiche e sede di privilegiate dimore.
Ma l’universo Chianti, per sorprenderlo nella sua natura misteriosa, labirintica, magica, è un universo difficile. Bisogna percorrere il reticolo delle strade poderali, gli erti sentieri che s’imboscano nel folto, le vie sterrate che si inerpicano, si incrociano, sembrano perdersi nel dedalo dei sentieri, si fronteggiano e si ripetono. Soltanto allora, sul punto di smarrire l’orientamento e la mèta, ci assale come una vertigine il sentimento del lungo dialogo, aspro e solidale, appassionato e violento, che qui si è svolto nei secoli tra uomo e natura. E si capisce l’anima ancora medievale che spumeggia nei bicchieri, in quel rosso rubino ove viola, rosa e marrone scintillano insieme, quasi costretti a una fatale armonia. Il fascino del Chianti, del territorio e del vino, è racchiuso più che nelle ville celebrate sulle etichette, nelle pievi, nelle cappelle, nelle canoniche, nelle badie sepolte nei boschi, improvvise e silenziose come rilevazioni emerse da un prezioso segreto. Proprio lì trova tregua il dissidio che lo sommuove come una burrasca, tra la mite, ordinata serenità e la stizzosa, aizzante asprezza fiorentina. Di sangue senese (i Pampaloni sono originari di Colle Val d’Elsa, ai margini del Chianti, dove la natura si addolcisce nella malinconia delle crete care a Romano Bilenchi) e di elezione fiorentina, io amo questa terra, a lungo contesa tra Siena e Firenze, come un ostaggio di pace.
«Chianti», 1987. Dal volume «Una valigia leggera», 2007 Nino Aragno editore. Per gentile concessione di Anna Pampaloni, curatrice del volume insieme a Milva Maria Cappellini