FINO A LIVORNO IN BICI, SE GIOCA IL GRANDE TORO
Una sgambata di 130 chilometri tra le macerie della guerra per una partita memorabile Passando dalla base Usa e dal capannone di Ezra Pound, in mezzo ai prigionieri tedeschi
Per vedere il grande Toro, in occasione di una sua trasferta a Livorno, nel giugno del ’46, mi feci in bicicletta circa centotrenta chilometri, da Fiumetto all’Ardenza, andata e ritorno. Nemmeno poi tanti, si dirà, per uno che allora aveva solo trent’anni. Si pensi però all’epoca, subito dopo la fine della guerra che aveva stagnato per mesi e mesi nella zona. Le strade erano disastrate e in molti punti interrotte; per via della siccità faceva un gran caldo; polvere dovunque, la bicicletta poi era un vecchio catenaccio, pesantissimo, con le gomme rattoppate.
Mettersi in strada in quelle condizioni era una mezza avventura. Ma si trattava di vedere il Toro, una squadra che, si diceva, giocava un calcio mai visto. Pensate. Con sette uomini all’attacco. Un Wunderteam. Partii verso mezzogiorno. C’era poca gente sulle strade: pochissime automobili, qualche motoretta di recente invenzione, le Vespe, oltre ai soliti autocarri americani col loro carico di neri allegroni, prostitute, piccoli trafficanti presi di passaggio. Lasciata Viareggio, imboccai il viale dei Tigli rimasto miracolosamente illeso, sbucai sull’Aurelia a Torre del Lago e attraversai l’ancora folta foresta di Migliarino, rifugio di sbandati e poveracci di ogni risma. Le tracce della guerra erano sempre visibili; ma nell’aria si avvertiva l’allegria di un mondo che si scopre pur sempre vivo e con la voglia di rifarsi. Il Toro, con le sue novità era un poco il simbolo di questo fervore. Se no, perché mai sarebbe venuto in mente a uno come me, non più giovanissimo, di andarlo a vedere così lontano? (…)
Pisa mi sfilò sulla sinistra con i suoi funesti ricordi sbiaditi dall’afa estiva. Il ponte sull’Arno era interrotto. Lo passai più a valle su un Bailey montato dagli alleati, raggiunsi di nuovo l’Aurelia un paio di chilometri più a sud. La striscia cupa della pineta che accompagna a distanza la ferrovia s’avvicinava sulla mia destra e dopo una decina di chilometri mi raggiunse chiudendomi la visuale. Ero a Tombolo. Sulla località si raccontavano mille storie tutte più o meno fantasiose. Di reale si vedevano i capannoni e i depositi della base americana e più oltre il campo dei prigionieri tedeschi. Erano tantissimi. A vederli, oltre l’alta rete che li separava dalla strada, non pareva se la passassero tanto male; di certo stavano meglio che in Germania. Le tende erano bene allineate e ben spaziate; attraverso i teli sollevati dell’ingresso si vedevano all’interno i crucchi a torso nudo occupati tranquillamente nelle loro faccende. Molti sedevano ai tavoli; qualcuno intento a leggere o scrivere. Là dentro c’era stato fino a poco prima, un prigioniero illustre, Ezra Pound. Si racconta che nei primi tempi l’avessero tenuto in una specie di gabbia come si fa con una bestia feroce o un matto pericoloso. Spero non sia vero. Gli americani comunque sbagliarono a considerarlo un traditore. Pound aveva lasciato l’America da anni, era un cittadino del mondo, l’accusa di tradimento nel suo caso non aveva senso. Aveva la testa di un profeta. Difficile per noi capire quali pensieri passassero dietro quei capelli cespugliosi. Dei suoi versi ho capito sempre poco. Penso tuttavia che con la sua cultura vorace e sincretistica, disposta ad accogliere qualunque «materiale», se avesse potuto vedere il Toro l’avrebbe citato insieme a Ben e Claretta nei suoi Pisan Cantos. Livorno era stata anch’essa duramente colpita dalla guerra, specie nel centro storico. L’aggirai percorrendo il viale di circonvallazione. Passando sotto lo scolorito edificio del Telegrafo ch’era stato dei Ciano, come non ricordare quell’altro disgraziato, il Galeazzo? Era stato, al tempo delle sue fortune, francamente antipatico. Né la sua tardiva resipiscenza basta, politicamente, a riscattarlo. Tuttavia, pensando alla sua fine, ai giorni del processo e della condanna a morte, dobbiamo riconoscergli una certa grandezza. Bene o male, grazie anche a lui, la farsa politica italiana si trasformò, almeno per una volta, in tragedia. Prima dell’Ardenza sbucai sul lungomare. L’aria fresca e ventilata spazzò via, col sudore, la stanchezza e la polvere, i ricordi penosi. Il Toro ci attendeva. Quando arrivai allo stadio con la sua misera torretta un po’ sbilenca, la folla cominciava ad affluire. Nella curva sud c’era un gruppo di prigionieri tedeschi portato lì in vacanza premio. Se ne stavano seduti buoni buoni sui gradini nei loro poveri panni, contenti di non ispirare più paura. Erano anni che non vedevano un pallone. E chissà che voglia ne avevano. Con l’altoparlante della radio che emetteva le note di Symphony i giocatori cominciarono a entrare alla spicciolata, in maglia granata i torinesi, in maglia biancoverde, per dovere di ospitalità, quelli del Livorno.
Senza fretta presero posizione. Appena udito il fischio dell’arbitro i biancoverdi si buttarono all’attacco. Tre anni prima, nell’ultimo campionato regolare, il Livorno era stato una bella squadra, compatta e veloce, che aveva contrastato il Torino (non ancora quello d’ora, ma sulla strada di diventarlo) fino all’ultima giornata nella lotta per il titolo. Su quelle memorie e nel vento dell’incitamento popolare i suoi giocatori investirono dunque l’avversario con folate impetuose, illudendosi di ripetere le prodezze di una volta. Non erano forse gli stessi di allora, solo un poco invecchiati? Non avevano gli stessi nomi? Uno, l’ala destra Piana, Teresio, era piccolo e tosto, un piemontese, viperino nei contrasti. Il centravanti, Raccis, era un sardo, puntiglioso e attento; Falchetto lo chiamavano i tifosi; l’ala sinistra, Degano, un brunetto dagli occhi languidi e dal tocco di palla fino, veniva dal Veneto. Tutti e tre, inseguendo ogni pallone lanciato lungo dalle retrovie, si dannavano per raccoglierlo, giocarlo, giostrarlo, farne insomma qualcosa, come avevano così bene imparato solo ieri. Ma sì, pareva fosse passato un secolo. Ora avevano davanti un Maroso, un Rigamonti, un Ballarin; e contro quei tre scogli i ricordi non servivano, erano anzi d’inciampo. Il Toro continuava a difendersi; e ogni tanto senza darlo a vedere, ta, ta, ta, con qualche passaggio, arrivava con due o tre giocatori nell’area di rigore livornese, davanti alla porta. Alla mezz’ora, sempre come per caso, Gabetto, Loik e Grezar si trovarono soli dove il Livorno non avrebbe mai dovuto permettere che si trovassero: a una dozzina di metri dalla porta. Uno di loro tirò. Il portiere era bravino, si chiamava Giudici. Che poteva fare così solo? Si piegò, sbracciò, andò lungo disteso; lento si rimise in piedi per raccogliere la palla finita in rete. Dopo altri dieci minuti, il bis. La rete si gonfiò di nuovo alle spalle dell’estremo difensore livornese. Questa volta il pubblico capì e smise di urlare. I giocatori avevano capito già da prima. I torinesi, capimmo tutti, non avevano bisogno di grandi cose per far goal. Quando se la sentivano, come se uno di loro avesse detto «suvvia, andiamo», arrivavano sotto porta. Intanto finiva il primo tempo. Il secondo fu una ripetizione stanca del primo. Qualcuno segnò per il Torino il terzo goal e il pubblico cominciò a sfollare. Non sto a raccontare il mio viaggio di ritorno nella sera e poi nel buio, sulla strada solitaria, a tratti illuminata con tutte le sue buche dai fari delle rare automobili. A fatica, ce la feci. E potevo dire d’avere visto il grande Torino (…). (Estratto dal romanzo Toro delle meraviglie, © 2012 Cairo Publishing)
Le tracce del conflitto erano sempre visibili; ma nell’aria si avvertiva la voglia di rifarsi I torinesi, lo capimmo tutti, non avevano bisogno di grandi cose per fare goal