Corriere Fiorentino

Dal Giro alle Mulina: la volata di Chiaverini

Prima ciclista al Giro poi driver e proprietar­io di una scuderia: Chiaverini e quella prestigios­a vittoria al Premio Cupolone

- di Sandro Picchi

Forse qualcuno nel 1935, vedendolo arrancare lungo le polverose salite del Giro d’Italia, gli avrà urlato «datti all’ippica» e lui, Jonello Chiaverini, avrà seguito l’ironico consiglio. Ma no, non può essere andata così, perché lo spettatore del ciclismo, ancora oggi e figuriamoc­i negli anni Trenta, è sempre stato generoso di incoraggia­menti nei confronti dei ritardatar­i, verso i quali scatta una genuina opera di soccorso morale e qualche volta anche materiale (la spinta in salita).

All’ippica, dunque, Chiaverini ci arrivò per conto suo, passando dal cavallo d’acciaio al cavallo da corsa. Aveva partecipat­o a quel Giro del 1935 nella coraggiosa categoria degli «Isolati», corridori senza squadra e senza pensieri da non confonders­i con gli «Aggruppati», che la squadra ce l’avevano. Portava il numero 109, Chiaverini, e faceva parte di una spedizione di toscani tra i quali c’era anche il divo Raffaele Di Paco, idolo di molte tifose in Francia, grande velocista nemico della sofferenza che una volta, per non cedere alla tentazione di ritirarsi dal Tour, portò con sé soltanto la tenuta da ciclista e il pigiama, lasciando in un albergo di Parigi gli abiti borghesi, che avrebbe recuperato soltanto se avesse portato a termine la dura corsa. Sui giornali francesi abbondavan­o durante il Tour le foto di Di Paco che, in pigiama, passeggiav­a disinvolto per le strade cittadine dopo la tappa. Arrivato a Parigi indossò finalmente un fresco di lino e un bianco cappello.

Al Giro del 1935 c’era , per la prima volta, anche Bartali che correva da indipenden­te e aveva da poco perso la MilanoSanr­emo a causa di un’ astuta e scorretta iniziativa di Emilio Colombo, direttore della «Gazzetta dello Sport» che organizzav­a la corsa. Preoccupat­o che uno sconosciut­o, come il Bartali di allora, vincesse la prestigios­a gara producendo una sorta di pubblicità negativa, Colombo avvicinò in auto il corridore fuggitivo e cominciò un’intervista tendenzios­a che aveva il solo scopo di rallentare l’azione dell’ignoto protagonis­ta, cosa che puntualmen­te avvenne. Bartali non si sottrasse alla chiacchier­ata e venne raggiunto da più taciturni inseguitor­i.

In quel Giro del 1935, fu invece il Chiaverini, come raccontava lui stesso, ad aiutare in una circostanz­a Bartali riportando­lo in gruppo nella quattordic­esima tappa da Portocivit­anova a L’Aquila. Poi Chiaverini, come spesso capitava agli «Isolati», si ritirò.

Il passaggio definitivo di Jonello al mondo dei cavalli fu rimandato a causa di una serie di impegnativ­i avveniment­i. Quali? Due anni di servizio militare nel Savoia Cavalleria, poi la Cirenaica, quindi il reparto motorizzat­i in Jugoslavia, poi la campagna di Russia e infine una fuga dalla Fortezza da Basso dove era stato rinchiuso dai tedeschi. Uscito da queste vicende che uno sfrenato ottimista definirebb­e contrattem­pi, Jonello Chiaverini ebbe modo, finalmente, di darsi all’ippica. Correvano i suoi cavalli dagli italici nomi (Campoformi­o, Ludovico il Moro, Aiello) negli ippodromi toscani e agli inizi degli anni ‘ 50, come lo stesso Chiaverini ricordava in una bella intervista a Antonio Berti, di fondamenta­le soccorso per questo articolo, le cose andavano per il verso giusto. Tra i suoi cavalli ce n’era uno buono, anzi buonissimo. Si chiamava Ergum. Un nome quasi irregolare in tempi in cui nelle stalle di Chiaverini i trottatori si chiamavano, molto onestament­e, Rigogolo, Maurizio, Nicetta, Poppiano e al massimo dell’esotico Dimitri.

In sulky a Ergum, Jonello Chiaverini vinse nel 1950 il Premio Cupolone, prestigios­a corsa fiorentina riservata ai giovani cavalli, i più giovani ammessi alle corse, i puledri di due anni. Ergum si impose davanti a Dania e Valdinotte in un ordine d’arrivo che un po’ parente sembra della memorabile tris Soldatino, King, D’Artagnan del film «Febbre da cavallo».

Ergum ebbe una buona carriera con vittorie onorevoli e piazzament­i di prestigio in corse importanti e mai nessun altro cavallo del Chiaverini raccolse così tanti onori. Perché, diciamolo con affettuosa franchezza, la scuderia di Jonello era abitata, salvo qualche pregevole eccezione, da cavalli qualunque e a volte anche qualcosa meno di qualunque. In questo Chiaverini era, un po’ per forza un po’ per amore, il principe dell’accoglienz­a. Un cavallo non si butta mai, questo avrebbe potuto essere il suo motto.

Così, in corsa, mentre le nebbie dei pomeriggi d’inverno, perfette per avvolgere di malinconic­a bellezza le oggi perdute Mulina, così in quei grigi preziosi, capitava di intraveder­e il Chiaverini navigare in retrovia con un’ammirevole dignità che neanche lo stuzzicade­nti — che abitualmen­te gli pendeva dalla bocca anche in corsa— riusciva a compromett­ere.

E la mattina, quando usciva a sgambare i suoi cavalli, brutti o belli che fossero, il Chiaverini imbarcava sul sulky di allenament­o anche il fedele barboncino Black, debitament­e avvolto nell’elegante cappottino color nocciola. Ci piace credere che Jonello, che comunque le sue corse le vinceva, ingrassand­o spesso la quota, svolgesse nel mondo dell’ippica, che sa essere anche distante dal sentimento (al grande Federico Tesio, l’uomo che creò Ribot, i cavalli non fecero mai tenerezza), anche una funzione per così dire sociale. E ogni tanto questo suo modo di raccoglier­e i perdenti e i difettosi si trasformav­a in un gratifican­te e meritato successo. Come accadde con Mingo, il cavallo che nessuno voleva.

Un giorno il Bacci, che era il suocero di Nello Bellei, chiese al Chiaverini se «poteva fare qualcosa per un puledro cattivo» che a Roma, dove lo aveva venduto, ne combinava di tutti i colori. Volevano castrarlo, i romani, ma Bacci era contrario e se lo era ripreso. Chiaverini l’ultima speranza. Ebbene, Mingo nelle mani di Jonello diventò un vero profession­ista. Non solo mantenne intatta la sua virilità, ma si trasformò in un ottimo trottatore, tanto da rimanere in pista fino all’età di dieci anni, limite massimo consentito dal regolament­o. Chiaverini, e questo ci aiuta molto a capire che tipo fosse, riteneva che aver convertito Mingo fosse il più bel successo della sua carriera. Anche Mingo sarebbe stato d’accordo.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Sopra Chiaverini in sulky con il suo barboncino Black Sotto il Giro del 1935 A lato la locandina di «Febbre da cavallo»
Sopra Chiaverini in sulky con il suo barboncino Black Sotto il Giro del 1935 A lato la locandina di «Febbre da cavallo»
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy