Non chiamatelo Liala
Montecarlo di Lucca ricorda l’autore de «La ragazza di Bube» La resistenza, l’antifascismo e la condanna della sinistra: «I suoi romanzi come Harmony»
C’era una volta il Gruppo 63. Che cos’era? E chi se ne ricorda? Probabilmente nessuno.
C’era una volta Carlo Cassola. Nato cento anni fa, morto nel 1987, «c’è ancora». Anche se tra i più giovani non è gettonatissimo, resta tra i protagonisti della narrativa italiana del ‘900. E il 15 settembre Montecarlo di Lucca, una gemma di toscanità verde e ondulata, dove lo scrittore passò gli ultimi anni della sua vita, contribuirà a dare spazio a una serie iniziative a ricordo della figura e dell’opera.
Ma perché abbiamo messo insieme il Gruppo 63 e Cassola? Perché il movimento di neoavanguardia, fondato per l’appunto nell’ottobre del ’63 a Palermo, liquidò l’autore della Ragazza di Bube con un giudizio rovente: «la nuova Liala». Nota autrice di romanzi «rosa», la povera Liala, pur bravissima nel tessere intrecci sentimentali ad alto tasso di gradimento popolare, era guardata con sovrano sprezzo dagli intellettuali progressisti. E tra questi c’erano i «gruppettari» del «63». Fior di nomi, intendiamoci: Alberto Arbasino, Umberto Eco, Giorgio Manganelli, Edoardo Sanguineti, Renato Barilli, Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani… Con la fissa del marxismo e/o dello strutturalismo, o quanto meno di una cultura che smontasse i parametri letterari consueti e dissacrasse il senso comune, in nome dell’impegno e dell’ideologia. Insomma, quelli del Gruppo erano rigorosamente schierati nella sinistra più rivoluzionaria e più chic, incubatrice del Sessantotto. Ma anche Cassola era di sinistra. Ed erano di sinistra Giorgio Bassani e Vasco Pratolini che furono dileggiati insieme a lui. Di sinistra? Eh, no: la loro prosa era asciutta, chiara, nitida; si raccontavano delle storie; c’erano una trama e dei personaggi, con tanto di emozioni, sentimenti, passioni; la politica si mescolava all’esistenza, certo, ma non era la cosa più importante, non c’erano messaggi di cambiamento, di trasformazione, di rivoluzione. A prevalere era «il privato» e di lì a poco, tra i fervori della contestazione, sarebbe stato sentenziato: «il privato è politico».
Le «nuove Liale» — Cassola, Bassani, Pratolini— non ci rimasero certo bene. In particolare Cassola — un fiero antifascista che aveva fatto la Resistenza, che da sempre era un socialista non lontano dal Pci, che collaborava a testate e firmava manifesti di sinistra e di estrema sinistra — crocefisso come romanziere color «rosa spento». Ma quella, paradossalmente, era davvero la sua cifra poetica. Bastava rivendicarla, senza tentennamenti né compromessi né fughe in avanti. Cassola era «rosa spento» per scelta. Sin dagli anni della sua giovinezza, quando aveva cominciato a scrivere i primi racconti e, insieme all’amico Manlio Cancogni, aveva scelto di adottare una poetica «subliminare». Facendo propria una scrittura che «si pone sotto le soglie della coscienza pratica» e che spoglia gli oggetti, i personaggi, gli eventi da ogni attributo ideologico, etico, conoscitivo, psicologico, per raccontare pure emozioni, luoghi della vita, del cuore, della memoria. L’esistente. Dimesso, addirittura grigio nei suoi riti e nei suoi ritmi. E ritagliato nei domestici spazi di Grosseto, Volterra, Cecina, Marina di Cecina, Massa Marittima: la Toscana di Cassola, la sua spoglia, ridotta geografia — tutta da riscoprire — dove entravano prepotenti i turbini politici e c’era chi militava, e c’era anche chi ammazzava o veniva ammazzato, ma l’ordine delle cose continuava a riproporre un andamento lento che assorbiva ogni tipo di scossa, all’insegna di progressivi disincanti.
Ecco: da una parte Cassola sapeva bene che il suo mondo era questo e che questa era la vita, povera ma bella, nella sua sommessa «verità»; dall’altra le accensioni ideali non gli facevano difetto. Così, negli anni Cinquanta si recò anche in Cina, a scoprire il comunismo di Mao. E non dimentichiamo che la Resistenza e l’umana simpatia per i «militanti di base» sono motivi ricorrenti nei suoi romanzi.
Eppure il Pci diffida da subito di quel prof. di storia e filosofia così riservato e perbene: addirittura, alla fine degli anni Quaranta, è Palmiro Togliatti in persona ad attaccare il romanzo Fausto ed Anna, per vilipendio della Resistenza, dato che il protagonista vive la sua esperienza partigiana senza alcun entusiasmo e non sembra creder granché al «sol dell’avvenire». C’è da chiedersi se l’antiretorico Cassola ci credesse e fino a che punto credesse a un «mondo nuovo». E tuttavia è proprio a questa attesa — addirittura coltivata con un misto di ribellione civile e di tensione utopistica — che si consacra lo scrittore, a partire dagli ultimi anni Settanta. È il periodo in cui Cassola si batte per il disarmo unilaterale dell’Italia, celebra negli animali le qualità che l’uomo non ha più o non ha mai avuto, fonda, insieme a Francesco Rutelli, una rivista radicale, L’Asino, che avrà nove mesi di vita battagliera. Sono gli anni di una «trilogia atomico- apocalittica» (Il superstite, Il mondo senza nessuno, Ferragosto di morte) lontanissima dalla misura, essenziale ed elementare, di Fausto ed Anna, del Taglio del bosco, della Ragazza di Bube, di Ferrovia locale. Come se per quella intimità, dolce e dolente nella sua rassegnazione, non ci fosse più posto in un universo sempre più affannato e lacerato. Quasi un presagio?
Impegno Negli anni Cinquanta si recò anche in Cina, a scoprire il comunismo di Mao e non dimentichiamo che la Resistenza e l’umana simpatia per i «militanti di base» sono motivi ricorrenti nei suoi romanzi