QUELLE STRADE DI MONACI E ANARCHICI
Poco meno di un secolo e mezzo fa nei giorni di festa intervenivano i bersaglieri per impedire agli abitanti di San Frediano di entrare nel salotto buono della città, chiudendo il ponte alla Carraia.
Con il suo terzo stato di artigiani e operai del Pignone, trecciaiole e ricettatori, il rione era considerato un vivaio di teste calde, che non dovevano turbare le digestioni dei buoni borghesi intenti ad ascoltare la banda in piazza Vittorio. San Frediano era considerato la capitale dell’internazionalismo italiano; del resto vi aveva soggiornato anche Giovanni Passannante, autore del fallito attentato a Umberto I.
Eppure, anche se fra i suoi abitanti erano in molti a condividere le idee di chi non voleva Ni Dieu ni maître, le origini del quartiere erano strettamente legate a un ordine religioso: i monaci camaldolesi che per dare aiuto agli abitanti del luogo, in prevalenza umili ciompi, fino al ‘500 costruirono modeste abitazioni, chiamate di conseguenza «camaldoli». La loro presenza è ricordata dal nome di una delle strade più caratteristiche del quartiere, che congiunge piazza Tasso a piazza de’ Nerli.
I sanfredianini che l’Italietta percepiva come una minaccia sociale erano discendenti quindi degli inquilini (ma all’epoca si diceva «livellari») di un ordine religioso. Ma le case che abitavano, ormai fatiscenti, con le ripide scale su cui faticavano ad arrampicarsi i confratelli della Misericordia e l’umido che uggiva da stanze provviste a malapena di un «licitte», erano un ricettacolo di miserie e di malattie.
Ai primi del ‘900 il quartiere di Santo Spirito, di cui San Frediano era parte, contendeva al rione di Santa Croce il primato dei decessi per tubercolosi (37,9 per cento su 10.ooo abitanti) e le più alte percentuali di mortalità infantile. E i pochi interventi pubblici, come l’albergo dei poveri di via della Chiesa, le case popolari di via del Campuccio e i bagni pubblici di via Sant’Agostino non erano sufficienti a migliorare una situazione aggravata dall’arrivo di molti popolani sfrattati dagli sventramenti del centro storico.
Se l’Oltrarno, antica sede della corte medicea, era sempre stato considerato un miscuglio di miseria e nobiltà, a San Frediano rimaneva la prima. Ancora oggi, a dare a un vecchio abitante di Santo Spirito del sanfredianino si corre il rischio di farsi togliere il saluto.
Fu dunque anche per preoccupazioni di igiene sociale tipiche della cultura positivistica del tempo che il nuovo piano regolatore del Comune di Firenze, redatto nel 1915 dall’ingegner Bellincioni, previde massicci espropri e demolizioni nell’area compresa fra via dei Serragli, i lungarni, quanto restava delle antiche mura e via del Campuccio. Il «piccone risanatore» non l’inventò Mussolini. Il progetto comunque rimase inattuato, per carenza di fondi, ma anche in seguito alle proteste di un’opinione pubblica sensibile alle ragioni del «pittoresco», così come non ebbero seguito i disegni di sventramento elaborati in epoca fascista, per altro meno invasivi di quelli previsti dal piano Bellincioni.
Nell’immediato secondo dopoguerra San Frediano assurse alle glorie in bianco e nero del neorealismo, con il celebre romanzo di Pratolini e con l’altrettanto fortunata pellicola del ventenne Zurlini, con la Podestà e la Ralli. Ma le disavventure del giovane Bob e di Mafalda non devono far dimenticare che il vecchio gonfalone del Drago Verde rimaneva uno dei quartieri più malsani, in una città in cui ancora nei primi anni ‘50 la Tbc era causa del 7 per cento dei decessi.
Poi, è successo quel che è successo, con le ristrutturazioni edilizie, l’aria condizionata che rende vivibili le vecchie mansarde, i mattoni a vista che riaffiorano sotto ottocentesche imbiancature. Come il Testaccio a Roma, anche San Frediano si è «gentrificato» e il Baedeker del terzo millennio l’ha incoronata quartiere più «cool» al mondo, meta privilegiata degli hipsters, questi anglofoni nipotini dei bohémiens che la preferiscono (non a torto) a Dubai.
E pazienza se i suoi locali sono intitolati a Hemingway e non a Pratolini, se vi si parla più l’inglese del vernacolo e molti avventori alla ribollita preferiscono il sushi. Ormai da tempo Bob e Passannante non abitano più qui.
Pazienza se oggi i suoi locali sono intitolati a Hemingway e non a Pratolini, e si parla più l’inglese del vernacolo