IL PARTITO CHE NON C’È
Un cortocircuito permanente. Ormai non c’è un fatto di cronaca (a parte le scemenze del gossip) che non scateni le solite contrapposizioni. Dichiarazioni scontate, per partito preso. Come se i nostri politici avessero perso irrimediabilmente la capacità di stupire, di fare gol in contropiede. Temi delicati come l’immigrazione, l’accoglienza o la sicurezza non sono spunti per un confronto aperto, per uno sforzo di contaminazione reciproca alla ricerca di soluzioni che almeno si avvicinino all’interesse nazionale. Niente di tutto questo. Ci si spara addosso dalle rispettive trincee in attesa della conta finale. La conta dei voti. Numeri. I numeri che danno il potere. E basta.
Nelle aule della Cesare Alfieri, per anni, Giovanni Sartori, Silvano Tosi o Antonio Zanfarino, tanto per citare tre pilastri della Facoltà di via Laura (e non ce ne vogliano gli altri grandi docenti), ci avevano rappresentato tutto un altro modo di fare politica. Davvero come un’arte, l’arte del (possibile) buon governo. Basata su alcuni criteri comuni, riconosciuti da maggioranze e opposizioni. Come in ogni democrazia sana. Qui, quotidianamente, prevale invece l’attacco velenoso, l’offesa, se va bene lo sberleffo. E così l’integrazione diventa la giaculatoria dell’accoglienza a ogni costo, il rito stanco dei buonismi esibiti per farsi apostrofare dall’altro fronte. Il quale, parallelamente, combatte con una violenza verbale che disconosce ogni principio umanitario per poi rifugiarsi nelle dichiarazioni ipocrite di chi nega qualsiasi tentazione xenofoba. Il caso di don Biancalani, scoppiato a Vicofaro dopo la pubblicazione della foto dei giovani profughi in piscina, è stato la rappresentazione, perfino teatrale, di questo estenuante, sterile duello. E lo stesso accade quando si parla di sicurezza. Un concetto che a sinistra evoca ancora la paura delle maniere forti e a destra si esaurisce nell’auspicata messa al bando di tutti i migranti. Muri contro muri, veri o artificiosi, fatti di pietre o anche di cartone, ma che comunque portano alla paralisi, per evitare il fuoco nemico e quello amico. Ne è esempio la vicenda dei somali che da mesi occupano il palazzo dei Gesuiti a Firenze. Un cul de sac. E tutti nel sacco.
Quello che è successo nei giorni scorsi a Roma con l’ultimo sgombero non può non farci riflettere. Molte critiche sono piovute sulla polizia. Sicuramente si poteva far meglio, tanto che il ministro dell’Interno si è affrettato ad annunciare lo stop a iniziative analoghe in assenza di valide soluzioni alternative per gli occupanti.
Che è già un riconoscimento di un atto contra legem. Ma ha colpito come nessuno o quasi abbia sottolineato il valore della legalità (che quella lunga occupazione comunque ledeva).
La legalità non è sinonimo di quell’«ordine» che soprattutto in Italia evoca stagioni totalitarie morte e sepolte dalla storia. La legalità è la difesa dei più deboli, esposti al sopruso dei più forti. I padroni del vapore, certo, ma anche quelli che tirano i fili del commercio abusivo o gli spacciatori che tengono in scacco intere zone delle nostre città (come accade a Firenze o a Pisa). La legalità è (sarebbe) il cuore della nostra democrazia. È un valore di sinistra (anche se a sinistra c’è chi ciecamente non vuole sentirselo dire) come di destra. Nella campagna elettorale della prossima primavera sentiremo molto parlare di lavoro, di tasse, di ripresa, di diritti civili. Sarebbe ora che qualcuno mettesse al primo posto il principio delle regole. Al centro come nelle comunità locali. Sarebbe una novità coraggiosa in un Paese in cui è passata l’idea (anche tra gli stranieri) che qui ognuno può fare più o meno ciò che gli pare, ma non è detto che il carniere elettorale resterebbe desolatamente vuoto. Scommettiamo?