QUEI PAESAGGI MACCHIAIOLI TRA I FANTASMI D’INFANZIA
Il racconto L’innata nobiltà di Pirandello e le ispirazioni pittoriche del babbo nella patria degli anarchici A Castiglioncello negli anni ‘30. Un luogo dello spirito riservato alla poesia e alla fantasia
Castiglioncello. Piccolo porto di origine medicea, con una sola stazione di posta dei Lorena. Un minuscolo centro abitato che Diego Martelli scelse, agli inizi dell’unità, come luogo di incontro fra gli artisti: suoi ospiti in un «casone» estivo, ed essi ripagavano l’ospitalità lasciando quadri e bozzetti. Un fulcro, predestinato e coerente, della pittura macchiaiola, abbracciante il grande magistero di Giovanni Fattori. Una stazione ferroviaria dell’Italia liberale e umbertina, con annesso un presuntuoso castello di ispirazione falso medioevo: vicinissimo il romitiano ermo di Sonnino, l’accigliato «leader» moderato, l’anti-Giolitti. Verso la fine dell’Ottocento, il luogo scelto da artisti diversi, che si chiamavano Corcos e Fucini, e dove l’autore delle Veglie di Neri dispiegherà intera la sua vena di narratore autentico e penetrante. Un’oasi di serenità e quasi di riparo dalle intemperanze e dalla violenza della polemica politica e culturale. Un «porto franco» nei litigi che corrosero tanta parte dell’Intellighentia italiana dopo la prima guerra mondiale, e fra le due guerre.
Nel mio ricordo. Castiglioncello: un’infanzia popolata di fantasmi. L’itinerario prediletto per la pittura di mio padre, Guido, che si muoveva nella tradizione un po’ divisionista e un po’ macchiaiola. Il luogo da dove egli trarrà tanti motivi di stimolo sia per la sua vena di pittore, sia per la sua vena di acquafortista. Un luogo in cui la passione per la natura — già segnata dai trasalimenti dell’avanzante Maremma — si identifica col ri- piegamento in una zona intatta, ancestrale, riservata alla fantasia e alla poesia.
Rivedo mio padre che dipinge, sul mare di Castiglioncello. Sono i primi anni trenta. Dopo un’estate trascorsa ad Antignano nel 1930, che ispirò all’artista i primi quadri di soggetto, diciamo così, proto-maremmano, dal ’32 egli passerà una parte dell’estate a Castiglioncello, nella villa del fratello Igino. Almeno fino al 1942. E percorrerà, in auto o in bicicletta, larga parte di quella costa che da Castiglioncello si estende verso Vada e da Vada verso Cecina e che una volta si chiamava la costa dell’Alta Maremma. Allora incredibilmente più povera di adesso. Con una rada popolazione; in un rispetto ancora fortissimo delle costumanze e delle abitudini antiche. Ma sempre con quella sottile vena contestatrice e ribelle che caratterizzava l’intera zona, patria degli anarchici e dei democratici avanzati dell’Ottocento.
Un intreccio fra le memorie garibaldine di Vada, quelle guerrazziane di Cecina e quelle carducciane di Bolgheri e di Castagneto. In quel mondo respirava il magistero pittorico di Guido Spadolini.
Età favolosa. Penso a un abitante estivo di Castiglioncello, Luigi Pirandello: personaggio così popolare e domestico, che gli dedicai un articolo nel giornalino manoscritto che facevo al ginnasio. Si può dire che avessi conosciuto Pirandello. Forse senza stringergli mai la mano. Proprio nella prima estate di Castiglioncello, intorno al 1932, il primo anno che passai sullo sfondo di quel paesaggio singolare così legato alla mia vita. Pirandello abitava in una piccola casa di via Diego Martelli, vicino ai centri sacri della tradizione macchiaiola, che si era immedesimata con il paese, con le sue mura, con i suoi angoli, con le sue ombre. Scendeva sempre in piazza con Marta Abba, così minuta, così devota accanto a lui. Portava un grande cappello bianco. Sedeva lunghe ore ad un tavolino del caffè «Deri»: rispettato da tuti ma non disturbato da nessuno. Nobilitas naturalis, avrebbe detto Guglielmo d’Orange. Incuteva una naturale soggezione. Non era mai accattivante, nulla faceva per diventare ammiccante. Guardava anche i bambini (io avevo appunto sette anni) con l’occhio di amarezza un po’ mefistofelico, che rendeva il labbro impenetrabile, il sorriso enigmatico. In quell’occhio di Pirandello — come lo ricordo ancora oggi, tanti anni dopo — c’era un senso di tragicità, una nota di irrisolto mistero. Penso a Manzoni: quell’occhio non si poteva dimenticare. E infatti non l’ho dimenticato. (Natale 1987 - Capodanno 1988 Per gentile concessione di Cosimo Ceccuti, presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia)
Guardava anche i bambini con l’occhio di amarezza un po’ mefistofelico