Uno, cento, mille David. In 3D
Jeffrey Schnapp, guru delle «digital humanities», e i saperi del ventunesimo secolo Oggi al Marino Marini: «Le nuove tecnologie possono espandere all’infinito i tesori dei musei»
La prima creazione a sua firma — Jeffrey Schnapp & Company — che vedremo circolare per le strade delle nostre città tra la fine del 2018 e gli inizi del 2019 porta il timbro di un’azienda come la Piaggio che ha qui parte della sua anima e si chiama Gita: è un robotino fantastico — a vederlo ha la forma simile a un ufo o a una botte del futuro — capace di trasportare la nostra spesa, memorizzare percorsi e abitudini, quindi, ben programmato, fare servizio a domicilio e coadiuvarci in tutte le nostre incombenze quotidiane.
Schnapp, oggi a Firenze alle 19 al Marino Marini — fa parte del comitato d’onore del museo — è stato invitato a parlare della «Sorte dei saperi nel XXI secolo». Non a caso, oltre a essere Ceo di Piaggio Fast Forward, la società che si occupa del futuro robotico della casa madre e dunque anche delle applicazioni del robotino Gita, è direttore del MetaLab di Harvard. In sintesi è un signore che di robot, intelligenza trasferita ed elaborata tramite big data, digitale e nuove tecnologie si occupa sempre e da sempre. Il suo è un profilo particolare, perché parte come storico e umanista e trasferisce questa sua formazione nel futuro dando vita a quella disciplina che può definirsi umanesimo digitale. Parlare con lui in una città come Firenze ha un valore doppio, visto che la sua sfida è quella di applicare i big data allo story telling dei musei. Sembra un concetto riduttivo e modaiolo, e invece parlando con lui, ti accorgi che le nuove tecnologie possono avere un’applicazione negativa (ridurre tutto a un’esperienza virtuale, semplificare le nozioni e il sapere, uniformare le conoscenze) e una positiva. Ecco con lui abbiamo parlato di questo...
Professor Schnapp, cosa fate voi al MetaLab? Come lavorate per la diffusione e la condivisione del sapere, di quello umanistico almeno?
«Noi collaboriamo col Museo d’arte di Harvard, ma anche con alcuni musei del Nord Europa. Da noi ad Harvard, per esempio, abbiamo creato una Galleria interattiva che si chiama Light box Gallery grazie alla quale tu puoi vedere i circa 1.800 oggetti inseriti nel loro contesto, e dunque in interazione con gli altri. Le possibilità di conoscerli si amplia a dismisura».
Ci faccia capire meglio: prendiamo due esempi facili qui a Firenze, ipotizzando una sua collaborazione con la Galleria dell’Accademia e con gli Uffizi, prendiamo la «Venere» di Botticelli o il «David» di Michelangelo, cosa potrebbe insegnare ai visitatori un vostro intervento di divulgazione?
«Moltissime cose: La Venere o il David hanno una valenza artistica di per sé, a una visione diciamo tradizionale, ma una conoscenza in 3D del David ti potrebbe far vedere pezzi di quell’opera normalmente non accessibili a una normale visione: angoli nascosti, pieghe del corpo, cose che senza una scansione in 3D, che esiste già e che andrebbe solo resa fruibile, non sono immaginabili. Andiamo avanti con la Venere. Il suo valore estetico è immenso: ma esistono dei valori aggiunti potenzialmente condivisibili con lo spettatore grazie alle nuove tecnologie. Un turista curioso potrebbe tramite supporti digitali conoscere che senso ha avuto nella carriera di Botticelli la creazione di quel quadro, ma potrebbe anche voler conoscere la tradizione iconografica del soggetto della Venere e, ancora, voler conoscere la storia della sua fortuna nell’arte o nel museo, le ragioni di una collocazione piuttosto che un’altra. Come vede il sapere si può espandere all’infinito. Ogni oggetto porta con sé un legame con chi lo vede con chi lo ha creato, con il passato e il futuro. Non si tratta di sostituire l’oggetto originale con un suo doppio virtuale ma di aumentare l’esperienza di esso».
Altre applicazioni dei big data in seno ai musei?
«Sì: normalmente l’80 per cento dei patrimoni museali sono nei magazzini, avere accesso a quei dati e farli conoscere con questa complessità di narrazione sarebbe fantastico».
I big data, però riguardano, anche le nostre vite. C’è un problema di privacy e di diritto all’oblio che ci investe tutti...
«È vero e su questo si sta iniziando a ragionare da poco. Il potenziale immenso delle tracce della nostra vita che lasciamo nei nostri smart device ha un aspetto inquietante — la limitazione della nostra intimità e privacy — ma anche una possibile applicazione positiva. Lasciare tracce di sé, significa poter riscrivere la nostra storia, i nostri diari intimi con il supporto di una memoria che è fuori di noi, ma anche la Storia con S maiuscola. Gli smart device, i nostri telefonini, i nostri tablet, sono un archivio straordinario di informazioni. Dipende da come si usano, si aggregano e disaggregano i dati. Google e Amazon lo hanno fatto fino a ora per fini più commerciali, ma non è detto che non si possa usare quegli stessi dati per ampliare le conoscenze della comunità. E comunque continuo a credere che l’uso che se ne può fare nei musei è interessantissimo. Aiuterebbe a conoscere e a far conoscere in modo capillare e meglio il loro patrimonio».