Madame Saffo e le altre Cronaca di un’epoca fa
La notte dei funerali di Victor Hugo le prostitute parigine esercitarono per gratitudine la professione più antica del mondo col «sesso a lutto». L’autore de I Miserabili aveva restituito dignità alla categoria, presentando la passeggiatrice Fantine come una vittima della società. A Firenze, prima di Pratolini, non c’è stato un Victor Hugo per le prostitute, anzi per le baldracche, come venivano chiamate dal malfamato rione dove esercitavano dai tempi del Boccaccio e che prendeva il nome dalla corrotta città di Bagdad. Come in molti paesi cattolici, l’atteggiamento delle autorità nei confronti del meretricio era caratterizzato da una condanna morale temperata dalla consapevolezza della fragilità umana. «Sottrai le prostitute e ogni cosa sarà sconvolta dalle passioni della lussuria» aveva ammonito Sant’Agostino, che di tentazioni se ne intendeva.
La Chiesa fiorentina non rinunciava ai tentativi di recuperare meretrici e «malmaritate» in monasteri come Santa Maria Maddalena de’ Pazzi e Santa Elisabetta del Capitolo, ma era una fatica di Sisifo. Osterie, locande, bagni pubblici, come la famigerata «stufa» presso l’odierna chiesa di San Gaetano, erano luoghi di incontri carnali. Malfamate erano, nomen omen, via delle Serve Smarrite, via Vergognosa (oggi Borgognona), via dell’Amorino, ma l’epicentro della prostituzione era nel vecchio ghetto. Lì si trovava il «Gran Postribolo», sulle cui mura erano effigiati i capitani di ventura che «puttaneggiavano» abbandonando il servizio della Repubblica per un ingaggio più lucroso. Quando l’andazzo dei clienti suscitava troppe proteste l’autorità interveniva. In via del Fico, via Guelfa, piazza Ognissanti gli Otto di Guardia e Balìa apposero perentorie lapidi che vietavano il meretricio. Con gli anni le preoccupazioni sanitarie si affiancarono a quelle morali: quando nel 1849 fra le truppe asburgiche che puntellavano il vacillante trono di Leopoldo II si moltiplicarono i casi di sifilide, toccò al prefetto vigilare sulle condizioni igieniche delle «case».
Venne l’Unità d’Italia e il ghetto fu demolito. Ma non per questo la città si riscattò dal «secolare squallore» della professione più antica del mondo. C’erano le case regolari, come la vellutata «Madama Saffo», in piazza Antinori, in cui faceva flanella anche un futuro premio Nobel, le maisons di una strada dal nome promettente come via delle Belle Donne, i bordelli per la «bassa forza». Ma la regolamentazione del meretricio non impedi«case» va l’adescamento nei vicoli o il sottobosco degli alberghetti, come la pensione Cervia di via del Corno, cara ai fattori reduci dal mercato del venerdì in San Firenze. Per averla ricordata nelle Cronache di poveri amanti Pratolini ebbe un contenzioso con la proprietaria.
Venne nel 1958 la legge Merlin e anche Firenze smise di tollerare, o forse cominciò a tollerare un po’ troppo. Molte furono riconvertite in pensioncine che insospettivano gli ospiti per l’abbondanza di specchi, mentre, nonostante il divieto di «adescamento e invito al libertinaggio», la prostituzione invadeva le strade.
La senatrice Merlin era una socialista vecchio stampo: vedeva nel proletariato una classe che, secondo l’insegnamento di Lenin, doveva progredire col «dominio di sé»; per questo fu anche una convinta antidivorzista. Di opinione opposta fu un altro socialista, Gaetano Pieraccini, primo sindaco di Firenze nel dopoguerra, che in Senato si oppose alla legge con questa metafora: «Le anguille quando entrano in amore fanno un lunghissimo viaggio di migliaia di chilometri; vanno tutte quante a trovare il loro letto di nozze».
I fiorentini per assecondare l’istinto dovettero fare percorsi molto più brevi. Negli anni ‘60 molte passeggiatrici esercitavano nei vicoli di San Frediano, ma anche in Martelli o via Calzaiuoli, oltre che alle Cascine, orfane dei fasti ottocenteschi. Poi il meretricio si decentrò, col passaggio dagli alberghi a ore ai sedili delle utilitarie e i viali di circonvallazione divennero meta del «puttan tour» di goliardi sfaccendati. L’industria del sesso non guardava in faccia a nessuno e l’aristocratico quartiere intorno al Comunale divenne meta della prostituzione maschile. I tempi pionieristici della «Romanina» e dei «mascheroni» cui la Buoncostume permetteva di esercitare solo di Carnevale, quando è tollerato travestirsi, finirono negli anni ‘70. Carlotta, invece, avrebbe esercitato in casa…
La caduta del muro e la globalizzazione hanno provocato un ulteriore salto (in basso) di qualità, sostituendo alla figura artigianale del piccolo sfruttatore un racket sempre più spietato. Chi sa cosa ne avrebbe pensato la senatrice Merlin, che abolendo le case aveva pensato di difendere la donna e per lo stesso motivo si oppose al divorzio. Forse avrebbe dato ragione al realismo zoologico di Pieraccini o al pessimismo cristiano di Sant’Agostino. Per il momento resta da chiedersi se per impedire ai fiorentini di seguire l’esempio delle anguille basterà una riedizione delle ordinanze degli «Otto di Balìa».