Sgarbi: «La riscossa delle seconde file Ma prima studiate!»
Vittorio Sgarbi ci mette in guardia: «Mai come in questo caso è importante andarci preparati. Studiate! — capre!, sembra sottintendere, anche se non lo dice — Serve una preparazione di grado molto alto per affrontare la mostra Il Cinquecento a Firenze. Non ci sono i Raffaello e i Michelangelo che tutti conoscono. Ma un manierismo di difficile lettura». Sgarbi l’ha vista di sera. Prima dell’anteprima, con un blitz a sorpresa in Palazzo Strozzi. Un’incursione alla Sgarbi. «È un’esposizione monumentale — è il suo giudizio a caldo — perché sa mettere bene in evidenza ciò che accade dopo la fine del percorso di Michelangelo, un periodo che, per alcuni decenni, può competere con lui, da Pontormo a Vasari, soprattutto con le due Deposizioni e la terza di Bronzino, creando una parete tra le più belle del mondo».
Per il critico d’arte l’attenzione dei più curiosi però, dovrà concentrarsi su tre opere in particolare: «Innanzitutto il bellissimo ritratto di donna di Mirabello Cavalori, poi la formidabile pala d’altare con crocifissione di Santi di Tito (Visione di san Tommaso d’Aquino) che ha un piglio molto contro-riformistico, e infine il Martirio di San Giacomo e Josia di Cigoli, che viene da Pegognaga. Concentratevi su questi tre», consiglia. Non serve nemmeno leggere le didascalie dei quadri, pensa. Anzi: «Le ho trovate piuttosto ingenue, sono il punto debole di un allestimento tutto sommato buono ma che pecca di mancanza di originalità», anche se l’ex direttore degli Uffizi, qui co-curatore della mostra «Antonio Natali continua a dare grande prova di sé come curatore, unendo le sue qualità di studioso a quelle di organizzatore, allestendo una mostra che rappresenta la degna conclusione del percorso di un uomo che ha saputo dirigere gli Uffizi con grande intelligenza». Ma occorre lasciarsi trasportare: «Seguendo il filo narrativo che lega questa grande quantità di tavole restaurate Santi di Tito, «Visione di san Tommaso d’Aquino (San Marco), restaurato grazie a Banca Federico Del Vecchio e Vittorio Sgarbi capiamo il percorso-ponte tra il Cinque e il Seicento che si è realizzato dalla metà del secolo grazie a Cavalori, Jacopo da Empoli e Cigoli, autori ingiustamente tenuti in seconda se non in terza fila e che qui emergono in maniera prepotente».
Ciò che «più colpisce» è, sostiene Sgarbi, «l’importanza dei valori cristiani espressi al livello più alto attraverso l’imponenza delle pale alte 3-4 metri che danno la misura delle convinzioni e delle fede, in perfetto contraltare al relativismo culturale che viviamo nei nostri tempi». Ma una delle principali doti dell’esposizione che ha notato è «il saper porre in esame una stagione artistica che riflette su se stessa, dopo la morte di Raffaello e che si confronta con alcuni momenti di arte assoluta che nei decenni precedenti Michelangelo e Raffaello avevano costruito». E contemporaneamente la capacità di «far emergere alcuni sprazzi di Riforma, con Pontormo e Rosso, in un contesto in cui la Controriforma è totalmente dominante, grazie alle doti di questi due autori che saltano gli schemi e non si lasciano imbrigliare».
Affamato di arte com’è, Sgarbi ha colto l’occasione anche per visitare Palazzo Corsini alle porte della Biennale dell’Antiquariato: «Mostra formidabile anche quella — commenta — la scelta degli antiquari è di alto profilo come sempre, grazie alla severa guida del molto avveduto Fabrizio Moretti, degna della città che ospita i più bei musei al mondo». Nella prima navata, dice «non sai dove guardare, tanti sono i capolavori».
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