FIRENZE PER THERESA (NON SON SOLO FIORINI)
L’atteso discorso fiorentino del primo ministro britannico riguardo all’Europa si inquadra in un doppio ordine di questioni. Da un lato vi è la necessità di far compiere un’evoluzione significativa a quei negoziati sulla Brexit che sembrano pericolosamente bloccati.
Dall’altro lato c’è il problema del futuro politico della Gran Bretagna, la cui guida appare fragile in una fase in cui sarebbe invece auspicabile una più salda autorevolezza. La scelta di Firenze come sede del proprio discorso da parte di Theresa May risponde anche alla volontà di tutelare gli interessi del Regno Unito nel contesto europeo, in luoghi come il capoluogo toscano dove hanno sede storiche e radicate comunità britanniche. Vi è però un ulteriore orizzonte di implicazioni, forse non del tutto volute o comprese né a Londra né a Bruxelles, che sembra stridere con questi calcoli e con le alchimie politiche che li hanno prodotti. Si è opportunamente scritto che il capoluogo fiorentino rappresenta la città più «anglofila» del Vecchio Continente e dunque la sede ideale per un discorso in cui il divorzio fra l’Unione Europea e la Gran Bretagna possa essere letto non come un addio radicale e definitivo. Una valenza simbolica che tuttavia appare riduttiva del valore «europeo» della città. Non si tratta solo di richiamare la Firenze dell’arte, ma quella di un umanesimo che, oltre che un movimento culturale, è una forma costitutiva di un universalismo che è fra i tratti qualificanti dell’Europa moderna e di una Europa certamente assai più larga dell’Unione Europea. Si tratta di una Europa che ha un connotato storico secolare, nella quale non mancano tensioni e fratture, ma che ha una memoria e una sensibilità comuni e che non si limita alla sola condivisione di modelli o forme artistiche e letterarie. È l’Europa del concilio del 1438-1439, che sovrappone le esigenze e preoccupazioni di ordine religioso e politico con le relazioni di banchieri e mercanti che creano, già a partire dal crinale fra quattordicesimo e quindicesimo secolo, uno spazio economico comune. E in questo spazio la circolazione di fiorini è tutt’uno con quella di libri, idee, lingue, dotti e artisti. Certamente è un’Europa delle élite, che però investe e condiziona la dimensione collettiva, sia sul piano religioso che su quello politico e sociale e che vive soprattutto nelle città: Roma e Londra, Parigi e Colonia e anche Istanbul e Mosca. Perché l’intreccio di storia e dinamiche di lungo periodo, di cui Firenze non solo è l’icona ma in alcune occasioni è anche il centro, rappresenta una trama di relazioni che tiene insieme uno spazio geografico e ideale che include la Russia e le sponde del Mediterraneo. Questo carico di valori, che sono soprattutto morali, è come distillato in quello che Firenze evoca e rappresenta e va al di là delle opportunità politiche del complicato quadro britannico o delle tese trattative sulla Brexit. Costituisce piuttosto lo spazio in cui le culture e le fedi sono chiamate ad assumersi il compito di costruire l’Europa, prima ancora che come formula politica, come il luogo nel quale ritrovare una comune appartenenza storica. Al di là del semplice evento ritorna allora l’immagine biblica, evocata anni fa da Giorgio La Pira, della «città sul monte» che ricorda prima di tutto ai fiorentini stessi la funzione storica della loro città: essere il punto di saldatura di esperienze umane che hanno educato uno sguardo lungo capace di vedere lontano.