Corriere Fiorentino

La strana coppia del ’900

Dal 7 ottobre Poggio a Caiano espone le opere di Ardengo Soffici e Ottone Rosai Storia di un’amicizia (e di un diverso destino) tra due artisti che raccontaro­no corpi e cuori

- Mario Bernardi Guardi

È il dicembre del 1913 e a Firenze, in via Cavour, si possono visitare due mostre. La prima, alla libreria Gonnelli, è quella futurista di Lacerba. Da qualche mese la rivista partorita dal vorticoso ingegno di Giovanni Papini e Ardengo Soffici, va all’assalto di ogni possibile cielo borghese, conservato­re e accademico, inanelland­o sfilze di provocazio­ni fatte apposta per turbare i ben pensanti timorati di Dio. E adesso la sfida è un tumulto di esplosioni creative: forme e colori. In un locale a due passi da Gonnelli, sono esposte le opere del diciottenn­e Ottone Rosai, un tipo alto, bruno, dinoccolat­o e conosciuto nel giro degli artisti come una «testa calda». Lo sanno tutti: studiava all’Istituto d’Arti Decorative, ha risposto male a un prof. ed è stato espulso. Dopodiché, sempre a causa del suo caratterac­cio, lo hanno buttato fuori anche dal Regio Istituto di Belle Arti. Un tipo del genere garba un sacco ai sovversivi dell’avanguardi­a, che gli vanno a far visita, gli fanno i compliment­i e gli dicono: unisciti a noi. In particolar­e Soffici — un talento che va a caccia di talenti, e generosame­nte li promuove — guarda con interesse i quadri di questo figlio del popolo (il babbo di Ottone viene da una stirpe di intagliato­ri e falegnami) così attaccato alle immagini del suo mondo: vie e case della Firenze più umile, botteghe, osterie, cieli e cipressi, rappresent­ati con una limpidezza cruda ed essenziale.

Il trentacinq­uenne Sofficiche viene da una famiglia benestante ed è tutto azzimato, a differenza del proletario Sironi decisament­e male in arnesepotr­ebbe darsi delle arie: è stato a Parigi, ha respirato gli umori artistici più effervesce­nti, ha incontrato Max Jacob, Pablo Picasso, Guillaume Apollinair­e, ha fatto conoscere in Italia geni spericolat­i come il «veggente» Rimbaud, ha «inventato» le riviste fiorentine insieme a Papini e Prezzolini, è noto e stimato come pittore, critico d’arte, polemista. E anche narratore visto che nel 1911, ha pubblicato Lemmonio Boreo, un romanzo picaresco che Gobetti definirà «l’Iliade del fascismo». Adesso, poi, è uno degli animatori di Lacerba: tra l’altro, è stato lui a trovare il titolo ed è lui a disegnare il frontespiz­io. Ma a Soffici non interessa atteggiars­i a maestro: vuol bene a Rosai, artista rivoluzion­ario ma non immemore di radici ed eredità. Così — e ben lo evidenzia la mostra Soffici e Rosai. Realismo sintetico e colpi di realtà, aperta dal 7 ottobre al Museo Soffici di Poggio a Caiano — Ardengo e Ottone, così ardentemen­te innovativi e provocator­i, saranno compagni di viaggio nella riscoperta della memoria e dell’identità. E cioè di un paesaggio che è insieme, territorio dello spirito e visione del mondo. Più armonica in Soffici, sempre più «classica», più sof- ferta in Rosai, innamorato del turbinoso Medioevo? Senza dubbio, ma con qualcosa di forte in comune: una forma secca, schietta e sobria.

Soffici e Rosai, nei dipinti e nei disegni in esposizion­e, raccontano corpi e cuori della nostra terra, dipingono oggetti che sono emozioni, rappresent­ano la vita senza artifici intellettu­ali, con gli archetipi che balzano fuori dalla natura. Se ci mettiamo, poi, a scavare nell’esistenza dei due artisti, continuiam­o a trovarli «insieme». Insieme nella Grande Guerra che entrambi vedono — e vivono — come occasione di cambiament­o rivoluzion­ario. Perché l’ufficiale Soffici — che scrive diari «sul campo» come Kobilek e La ritirata del Friuli — e il soldato Rosai — che combatte nei reparti di assalto degli Arditi — «sentono» che gli umili fanti che hanno vissuto tra fango, sangue e pidocchi, meritano «un’altra Italia». A darle potente linfa vitale saranno Mussolini e le sue Camicie Nere? I due amici ci credono appassiona­tamente. Ma non ottusament­e. E si ritrovano insieme sulle colonne del Selvaggio a battersi per una rivoluzion­e nazionale e popolare che colga l’appello delle «province» — in prima linea, ovviamente, quelle toscane — contro la Roma ministeria­le e truffaldin­a che spinge il Duce a ogni sorta di compromess­o con la «vecchia Italia».

Poi, mentre Soffici celebra la patria e l’ordine nel «ritorno al reale», Rosai dà voce al suo estremismo dalle colonne del Bargello — il settimanal­e delle federazion­e fascista fiorentina, diretto da Alessandro Pavolini — e soprattutt­o da quelle dell’Universale, il foglio di battaglie antiborghe­si, anticleric­ali e anticapita­liste fondato dall’exanarchic­o Berto Ricci. «Fascisti rossi», al pari degli amici Vasco Pratolini ed Elio Vittorini? Ottone, dopo l’8 settembre, ne busca da un gruppo di antifascis­ti (picchiano non solo lo squadrista ma l’uomo che ama gli uomini: il pittore, pur sposato, era notoriamen­te omosessual­e), poi, nel ’44, si avvicina alla Resistenza. E la sua casa di via de’ Benci offre rifugio a diversi compagni in difficoltà, compreso il «gappista» Bruno Fanciullac­ci che va da lui dopo aver ammazzato Giovanni Gentile.

Ardengo, invece, resta fascista fino all’ultimo, aderisce a Salò, collabora al foglio repubblich­ino Italia e Civiltà (che tra le sue firme ebbe quella di un giovanissi­mo Spadolini) e per qualche tempo viene internato per collaboraz­ionismo. Destini diversi, a lungo sodali, poi avversi? È la crucialità del Novecento e, più che mai, dei suoi «anni ruggenti».

 Nonostante la differenza d’età di sedici anni saranno compagni di viaggio nella riscoperta della memoria

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A sinistra Soffici (con la bambina) e Rosai; sopra le «Donne alla fonte» di Rosai e a destra «Natura morta» di Soffici. Sotto il Museo Soffici
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