I vecchi camion dell’esercito finivano in Somalia Presi i trafficanti
Smontavano i mezzi per rimontarli a Mogadiscio. Servivano per la guerra civile?
I mezzi militari destinati alla Somalia venivano verniciati con colori diversi, tagliati a pezzi per camuffarli da pezzi di ricambio e infine saldati di nuovo una volta giunti a destinazione. I camion e gli autocarri dell’Esercito viaggiavano via mare su container che partivano dai porti di Livorno, Genova, Gioia Tauro o Anversa, in Belgio, per arrivare direttamente a Mogadiscio o in alternativa a Dubai, negli Emirati Arabi.
A mettere in piedi il sistema per aggirare l’embargo europeo della Somalia dilaniata da anni di guerra civile era un gruppo di somali, tutti residenti in Toscana, tra le province di Pisa, Livorno e Firenze, con la complicità di una serie di ditte di spedizioni e officine che si occupavano di tagliare i mezzi, togliere la vernice color verde militare e fornire i documenti falsi per l’esportazione.
Ieri mattina, con un’ordinanza del gip Mario Profeta, sono finiti agli arresti in cinque con l’accusa di associazione per delinquere transnazionale finalizzata al traffico di materiali di armamento: in carcere Salah Farah, 38 anni, e Mehdi Abderahman, 33, entrambi residenti a Montopoli Valdarno; Mohammed Issa, 33 anni, residente a Pontedera; Ammed Omar, 37 anni, residente a Signa ma domiciliato a Montopoli. Ai domiciliari per il reato di esportazione illecita di armamenti Denis Nuti, 45 anni, pisano di Santa Maria a Monte, titolare di una grande officina dove sarebbe avvenuto lo smontaggio dei veicoli militari. La rete dell’organizzazione poteva contare su autodemolitori e spedizionieri in Toscana ma anche in Emilia Romagna, Campania, Calabria e Sicilia. Le indagini non hanno permesso di identificare i terminali del traffico, due somali che da Mogadiscio si occupavano di ricevere i mezzi arrivati dall’Italia. In totale gli indagati sono sedici, tra cui tre somali abitanti a Signa, Montopoli e in Austria e sette italiani, quattro a Livorno e tre calabresi.
Le indagini della polizia stradale di Firenze, coordinata dal pm antimafia Giuseppina Mione, hanno permesso di ricostruire il meccanismo utilizzato nel traffico tra l’Italia e la Somalia. A dare il via all’inchiesta della Polstrada sono state le segnalazioni dell’Agenzia delle Dogane che, durante controlli di routine sui container nei porti italiani, hanno trovato numerosi autocarri militari. Grazie ad alcuni sorvoli aerei gli investigatori hanno rilevato la presenza dei mezzi militari nelle ditte coinvolte.
I somali in Toscana si preoccupavano di trovare veicoli da guerra usciti dal parco delle Forze armate ma ancora dotati di strumenti come la botola del fuciliere, le luci da guerra, la vernice antiriflesso e le ruote anti-proiettile. Alcuni di questi mezzi sono stati acquistati anche su siti internet. La legge prescrive che l’esportazione di materiale bellico debba essere tracciata in ogni singola operazione e autorizzata, che i mezzi debbano essere demilitarizzati — privati quindi di tutti i componenti tipicamente militari — ma nel caso della Somalia, Paese sottoposto a embargo internazionale, non è possibile alcuna attività di esportazione. Oltretutto, in Somalia i camion imbottiti di esplosivo vengono frequentemente utilizzati per compiere attentati. Il sospetto degli investigatori è che dietro questo traffico si nascondano anche attività legate al terrorismo. Quello che è certo è che il flusso di denaro tra l’Italia e la Somalia viaggiava con il sistema «hawala», il più diffuso nel Paese africano dove non vi sono banche e che permette di trasferire denaro senza lasciare tracce. Per questo la Procura ha contestato anche l’illecito bancario, visto che la legge che regola la vendita di armamenti (195/90) impone che anche i pagamenti siano tracciabili.
Nel luglio 2016 al somalo residente a Signa sono stati sequestrati quasi 32 mila euro in contanti (per questo è indagato anche per riciclaggio). E nell’ottobre scorso, al somalo che vive in Austria, dopo un incontro con un connazionale avvenuto alla stazione di Prato, la polizia ha sequestrato 43 mila euro in contanti ma ha stimato che nel periodo in cui è stato sotto inchiesta abbia avuto un giro di affari di circa 163 mila euro.