Le raccomandazioni giuste (negli Usa)
Un prof: scelto dalla Stanford University a colpi di lettere, ma lì chi scrive ci mette la faccia
Caro direttore, il caso di Philip Laroma Jezzi, il ricercatore di Firenze che ha denunciato i concorsi truccati, è davvero un caso anomalo, «una brutta malattia», un «fenomeno di malcostume» isolato? Insomma è un bubbone da ripulire o piuttosto una malattia degenerativa? Funziona bene il reclutamento nell’università Italiana? Il merito è davvero il criterio principale di selezione?
Come professore associato da 16 anni presso l’Università di Firenze, mi sono fatto una certa esperienza, non solo in Italia, ma anche all’estero. Recentemente ho ricevuto un appointment come full professor presso l’Università di Stanford in California, una delle Università migliori al mondo.
Il mio reclutamento è avvenuto così: il chairman, che conosceva la mia attività, mi chiese informalmente se avrei preso in considerazione l’idea di insegnare a Stanford. Ero già stato, in passato, full professor all’Università della California di Davis per un anno lasciando evidentemente un buon ricordo. Lusingato, feci pervenire il mio curriculum. Mi scrisse che lo aveva letto e approvato, e mi organizzò alcuni colloqui con preminenti membri della facoltà perché lo valutassero e poi m’incontrassero. Il giorno successivo incontrai otto altri colleghi professori che, valutarono il mio lavoro e con i quali ipotizzammo collaborazioni.«Tutto bene», mi disse la chairman. Tutti si erano detti favorevoli. Pensai: «E’ fatta». Ma per procedere, mi fu chiesto di far pervenire cinque lettere da cinque chairmen dei cinque continenti, che mi conoscessero solo di reputazione (cioè con i quali non avessi pubblicazioni o grant) e che mi sostenessero. Scrissi ad alcuni importanti colleghi che si dissero lieti di dar supporto alla mia candidatura. Giunte le lettere in pochi giorni, mi furono poi richieste altre cinque lettere da preminenti scienziati della psichiatria Usa, ed io fui lieto di vedere che il Presidente della Società americana di psichiatria, l’editore dell’American journal of psychiatry ,il Vice chairman di Harvard, eccetera, ben volentieri mi appoggiavano. Occorsero ancora cinque lettere di miei studenti che, raggiunti obiettivi di carriera importanti, testimoniassero che per loro ero stato un buon mentore: purtroppo molti erano già all’estero poiché ben preparati in Italia e quindi già sistemati, ma in Usa, nel Regno Unito, in Svizzera.
Completati tutti i documenti, la candidatura è stata ufficializzata tramite web in modo che chiunque potesse proporre un eventuale altro candidato migliore. Dopo, e questo è successo il primo luglio, il Presidente ha ufficializzato l’incarico.
Una procedura complessa, ma trasparente; dove è chiaro chi ti vuole e per fare cosa. E in cui sono esperti del settore che personalmente convalidano la scelta: tutti ci mettono la faccia. Quello americano è un modello limpido di cooptazione, in cui i meriti e l’adeguatezza del candidato sono valutati da esperti e offerti con trasparenza a ogni eventuale critica. La cooptazione non è certamente un metodo di scelta «democratico», ma il punto non è la democrazia del metodo: è la trasparenza e, dunque, la responsabilità, unici baluardi in grado di garantire la qualità della selezione.
Anche da noi, in Italia, dietro una forma apparentemente concorsuale, di fatto il più delle volte , si cela un sistema di cooptazione. E’ vero, ci sono concorsi pubblici aperti a tutti e non voglio certamente dare suggerimenti agli investigatori, ma perché non domandare ai tanti candidati qualificati che si ritirano dai concorsi, perché si ritirano quando avrebbero titoli per vincerli? E i bocciati qualificati perché non fanno ricorso ? Oppure è vero che quel «se fai ricorso, addio carriera» vale per tutti? C’era bisogno delle registrazioni per capire quello che era successo o sarebbe bastato contare quanti concorsi abbiano visto un solo candidato o poco più?
Questo metodo per fortuna non sempre porta in cattedra i meno capaci, anzi, ma impone anche ai meritevoli «riconoscenza» verso di chi gli ha permesso di entrare. Senza questa trafila si potrebbe andare in cattedra prima, come avviene negli altri Paesi, anziché aspettare il «turno» o sprecare tempo a «farsi amici» localmente —giacché è localmente che si controlla la chiamata— e immaginare carriere in cui si passa da Atenei più piccoli ai maggiori, in Italia ed all’estero, migliorando la qualità della formazione per i nostri studenti.
Le raccomandazioni sono fondamentali per la carriera universitaria in tutto il mondo, ma devono arrivare dagli accademici e pubblicamente, non dai politici. In Toscana ricordiamo ancora l’episodio del chirurgo toracico raccomandato per lettera dal governatore, ma che poi non ha funzionato. Solo allora il governatore dichiarò: «Io l’ho solo sponsorizzato, ma voi l’avete preso»; «voi», in questo caso, si riferiva alla direzione generale dell’azienda ospedaliera universitaria di Careggi. Episodio che insegna come l’istituzione universitaria debba rimanere indipendente da ogni pressione.
Malgrado la scarsità delle risorse investite nella ricerca, e con un reclutamento dei docenti così vulnerabile, l’università continua a produrre buoni risultati. Lo dimostra il fatto che un professore associato a Firenze meriti la chiamata a full professor alla Stanford University: è un buon segno, vero? Oppure no. Se vogliamo guarire l’università italiana, dobbiamo partire dalla diagnosi giusta, altrimenti nessuna cura le potrà giovare. Difendere «oltraggiati» il sistema attuale vuole dire non volerlo correggere.