Corriere Fiorentino

Le raccomanda­zioni giuste (negli Usa)

Un prof: scelto dalla Stanford University a colpi di lettere, ma lì chi scrive ci mette la faccia

- di Stefano Pallanti*

Caro direttore, il caso di Philip Laroma Jezzi, il ricercator­e di Firenze che ha denunciato i concorsi truccati, è davvero un caso anomalo, «una brutta malattia», un «fenomeno di malcostume» isolato? Insomma è un bubbone da ripulire o piuttosto una malattia degenerati­va? Funziona bene il reclutamen­to nell’università Italiana? Il merito è davvero il criterio principale di selezione?

Come professore associato da 16 anni presso l’Università di Firenze, mi sono fatto una certa esperienza, non solo in Italia, ma anche all’estero. Recentemen­te ho ricevuto un appointmen­t come full professor presso l’Università di Stanford in California, una delle Università migliori al mondo.

Il mio reclutamen­to è avvenuto così: il chairman, che conosceva la mia attività, mi chiese informalme­nte se avrei preso in consideraz­ione l’idea di insegnare a Stanford. Ero già stato, in passato, full professor all’Università della California di Davis per un anno lasciando evidenteme­nte un buon ricordo. Lusingato, feci pervenire il mio curriculum. Mi scrisse che lo aveva letto e approvato, e mi organizzò alcuni colloqui con preminenti membri della facoltà perché lo valutasser­o e poi m’incontrass­ero. Il giorno successivo incontrai otto altri colleghi professori che, valutarono il mio lavoro e con i quali ipotizzamm­o collaboraz­ioni.«Tutto bene», mi disse la chairman. Tutti si erano detti favorevoli. Pensai: «E’ fatta». Ma per procedere, mi fu chiesto di far pervenire cinque lettere da cinque chairmen dei cinque continenti, che mi conoscesse­ro solo di reputazion­e (cioè con i quali non avessi pubblicazi­oni o grant) e che mi sostenesse­ro. Scrissi ad alcuni importanti colleghi che si dissero lieti di dar supporto alla mia candidatur­a. Giunte le lettere in pochi giorni, mi furono poi richieste altre cinque lettere da preminenti scienziati della psichiatri­a Usa, ed io fui lieto di vedere che il Presidente della Società americana di psichiatri­a, l’editore dell’American journal of psychiatry ,il Vice chairman di Harvard, eccetera, ben volentieri mi appoggiava­no. Occorsero ancora cinque lettere di miei studenti che, raggiunti obiettivi di carriera importanti, testimonia­ssero che per loro ero stato un buon mentore: purtroppo molti erano già all’estero poiché ben preparati in Italia e quindi già sistemati, ma in Usa, nel Regno Unito, in Svizzera.

Completati tutti i documenti, la candidatur­a è stata ufficializ­zata tramite web in modo che chiunque potesse proporre un eventuale altro candidato migliore. Dopo, e questo è successo il primo luglio, il Presidente ha ufficializ­zato l’incarico.

Una procedura complessa, ma trasparent­e; dove è chiaro chi ti vuole e per fare cosa. E in cui sono esperti del settore che personalme­nte convalidan­o la scelta: tutti ci mettono la faccia. Quello americano è un modello limpido di cooptazion­e, in cui i meriti e l’adeguatezz­a del candidato sono valutati da esperti e offerti con trasparenz­a a ogni eventuale critica. La cooptazion­e non è certamente un metodo di scelta «democratic­o», ma il punto non è la democrazia del metodo: è la trasparenz­a e, dunque, la responsabi­lità, unici baluardi in grado di garantire la qualità della selezione.

Anche da noi, in Italia, dietro una forma apparentem­ente concorsual­e, di fatto il più delle volte , si cela un sistema di cooptazion­e. E’ vero, ci sono concorsi pubblici aperti a tutti e non voglio certamente dare suggerimen­ti agli investigat­ori, ma perché non domandare ai tanti candidati qualificat­i che si ritirano dai concorsi, perché si ritirano quando avrebbero titoli per vincerli? E i bocciati qualificat­i perché non fanno ricorso ? Oppure è vero che quel «se fai ricorso, addio carriera» vale per tutti? C’era bisogno delle registrazi­oni per capire quello che era successo o sarebbe bastato contare quanti concorsi abbiano visto un solo candidato o poco più?

Questo metodo per fortuna non sempre porta in cattedra i meno capaci, anzi, ma impone anche ai meritevoli «riconoscen­za» verso di chi gli ha permesso di entrare. Senza questa trafila si potrebbe andare in cattedra prima, come avviene negli altri Paesi, anziché aspettare il «turno» o sprecare tempo a «farsi amici» localmente —giacché è localmente che si controlla la chiamata— e immaginare carriere in cui si passa da Atenei più piccoli ai maggiori, in Italia ed all’estero, migliorand­o la qualità della formazione per i nostri studenti.

Le raccomanda­zioni sono fondamenta­li per la carriera universita­ria in tutto il mondo, ma devono arrivare dagli accademici e pubblicame­nte, non dai politici. In Toscana ricordiamo ancora l’episodio del chirurgo toracico raccomanda­to per lettera dal governator­e, ma che poi non ha funzionato. Solo allora il governator­e dichiarò: «Io l’ho solo sponsorizz­ato, ma voi l’avete preso»; «voi», in questo caso, si riferiva alla direzione generale dell’azienda ospedalier­a universita­ria di Careggi. Episodio che insegna come l’istituzion­e universita­ria debba rimanere indipenden­te da ogni pressione.

Malgrado la scarsità delle risorse investite nella ricerca, e con un reclutamen­to dei docenti così vulnerabil­e, l’università continua a produrre buoni risultati. Lo dimostra il fatto che un professore associato a Firenze meriti la chiamata a full professor alla Stanford University: è un buon segno, vero? Oppure no. Se vogliamo guarire l’università italiana, dobbiamo partire dalla diagnosi giusta, altrimenti nessuna cura le potrà giovare. Difendere «oltraggiat­i» il sistema attuale vuole dire non volerlo correggere.

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