«La cultura? Un tesoro oltre i musei»
A tavola (in ufficio) con Irene Sanesi, guida del Pecci e dell’Opera di Santa Croce: «Il contemporaneo può curare le periferie»
La presidente del Pecci di Prato e dell’Opera di Santa Croce: «Passione e competenze, così l’arte può creare ricchezza»
«Io non esco mai dallo studio per la pausa pranzo, preferisco non “staccare” troppo dal lunedì al venerdì per cercare di avere libero il fine settimana per la mia famiglia, i miei tre figli». Irene Sanesi sorride, quasi scusandosi, nell’ufficio di Prato in via del Carmine, nel centro storico. «Quando abbiamo riunioni e siamo in tanti ordino il pranzo da Cibino, grazie all’app, altrimenti mi faccio portare un primo o un secondo da Caffè Zero, in via Garibaldi, che ha una gestione famigliare e cucina fatta in casa...». Irene Sanesi, dottore commercialista, specializzata in economia della cultura, economa della Curia pratese, presidente dell’Opera di Santa Croce e della Fondazione Pecci, ci accoglie nei luminosi spazi ristrutturati della ex Galleria Gentili, dove lo studio BBS si è trasferito quattro anni fa dal Macrolotto.
Dal Caffè Zero arrivano gnudi ricotta e spinaci al pomodoro e tortelli di patate al ragù, fumanti e profumati. E il parallelismo è spontaneo: «Presidente, con la cultura si mangia?». «Lasciamo stare il presidente... E la risposta è sì ma occorrono gli ingredienti giusti e cuochi bravi. L’ingrediente indispensabile è la governance. La sfida non è solo il rapporto pubblico-privato, ma nuovi modelli di governance e di partecipazione; guardare al patrimonio culturale che non può più essere ancorato solo all’”immobile”, che sia il grande complesso monumentale francescano di Santa Croce o il Centro per l’arte contemporanea Pecci che nel 2018 compirà 30 anni, ma deve puntare al people’s empowerment, cioè alla crescita della persona e della comunità, il loro coinvolgimento in un percorso che è culturale, turistico ed anche economico». In «tavola» serve anche trasparenza, rendicontazione, e appunto cuochi all’altezza. «È importante la responsabilità di chi fa le nomine ai vertici e alla guida delle istituzioni culturali: per la complessità del nostro tempo servono non solo competenze ma anche capacità per una governance complessiva. E passione. Chi siede in questi board — aggiunge — lo fa per volontariato e deve anche conciliare qualità e quantità di impegno con la vita professionale e familiare. Una sfida affascinante e complessa». A proposito di nomine e responsabilità, si attendeva l’annuncio di Eike Schmidt dell’addio agli Uffizi, per approdare a Vienna tra due anni? «È una scelta non etichettabile. Ma io sul piano personale lo capisco. Quando uno è abituato ad alzare l’asticella non si ferma a lungo, si spende per alcuni progetti ed obiettivi. Io per prima mi do obiettivi e tempi: una delle condizioni che ho posto al sindaco per fare il presidente della Fondazione Pecci è stata questa. Sono una “traghettatrice”. Il cambiamento — sottolinea — è un valore. La leadership è fatta anche di deleghe, di trasferimento di competenze e relazioni affinché le persone e le istituzioni crescano. Non farò a lungo il presidente».
La scelta di andare in centro è arrivata quasi naturalmente, quando la Galleria d’arte Gentili ha lasciato la sede per trasferirsi a Firenze, complice la stasi del mercato del settore, e sono lontani i primi tempi, quando fuori dalla porta ogni giorno si trovavano le siringhe dei tossici. «Prato è cambiata, anche in centro, anche i cinesi — spiega Sanesi — Noi come studio seguiamo quattro o cinque grosse imprese cinesi, che investono anche, e ormai c’è la consapevolezza che la legalità è necessaria». Cambiamento appunto, ma assieme ad una visione strategica, aggiunge. «E purtroppo a livello nazionale soffriamo di una carenza di programmazione e visione strategica — afferma — Nessuna istituzione culturale oggi può pensare di restare isolata. Come mi piace dire occorre essere Glocreal, globali, creativi e locali, agire su tutte le leve per coinvolgere il territorio. Un conto è l’identità un altro la strategia». Nessun «sacrilegio» insomma nell’agire secondo logiche anche economiche, nell’unire le forze per farsi sentire. «L’identità, la storia sono una forza, un solco importante di azione ma la prima cosa da chiedersi è se la mission, così come è concepita, è ancora attuale; è dove voglio andare partendo dalla mia identità, come trovare nuove ed inclusive vie». Ad esempio? «Come Opera di Santa Croce, partendo dalla statua sul monumento funebre di Giovanni Battista Niccolini realizzata da Pio Fedi cui forse si sono ispirati per la Statua della Libertà, siamo andati a dicembre a New York, dalla fondazione che la gestisce e presto loro ci restituiranno la visita per stringere una relazione forte. Sui nostri social poi sosteniamo le altre istituzioni, ad esempio i social delle Gallerie degli Uffizi. E come Centro Pecci abbiamo protocolli con alcuni Comuni, come Scandicci, o il rapporto con la Fondazione Palazzo Strozzi». Nessuna contraddizione tra cultura, arte ed economia, anzi. «L’arte nasce con il mecenatismo, già da Pericle, ed oggi il mecenatismo è anche fundraising, come abbiamo fatto con In the name of Michelangelo per raccogliere i fondi per il restauro dell’altare della tomba del Buonarroti in Santa Croce. L’articolo 9 della Costituzione mette non a caso la promozione prima della tutela e conservazione, mostrando una grande modernità. Per essere competitivi si deve anche produrre arte contemporanea e spero che il ministro ai beni culturali Dario Franceschini attui una riforma del sistema del mercato dell’arte, strozzato da una legislazione fiscale pessima. Come studio abbiamo assistito alcune gallerie che si sono spostate a Londra perché qui non ce la fanno; l’art bonus va benissimo per i restauri, ma occorre agire su tutti i fattori di competitività». E nessuna contraddizione tra guidare la Fabbriceria di una millenaria basilica «tempio delle italiche glorie» ed un centro per l’arte contemporanea? «No. Nella gestione le dinamiche sono le stesse e anche nella comunicazione in entrambi i casi c’è bisogno di nuovi linguaggi. Certo è più complicata la comunicazione sull’arte contemporanea. Che è non solo opere d’arte, a volte calate dall’alto, ma artisti, la loro presenza, la possibilità di produrre, di dare spazio ai giovani, col rischio magari di sbagliare, ma avendo così le antenne sulla società e sull’evoluzione del mercato dell’arte. Vorrei — conclude — più arte contemporanea fuori dai centri storici perché, su questo Renzo Piano ha assolutamente ragione, occorre rammendare le periferie; ed anche le nostre, a Firenze come a Prato, ne hanno bisogno».