Corriere Fiorentino

LA LUCE DI RAFFAELLO E IL FASCINO OSCURO DELLE FIABE DI COLLODI

- di Vanni Santoni

Quando, qualche settimana fa, si è parlato di via Sestese, della Richard Ginori e con essa di Collodi, al secolo Carlo Lorenzini, mi ha scritto solerte una lettrice invitandom­i a ribadire, in queste colonne, che l’autore di Pinocchio non è nato a Collodi ma a Firenze. Un dato che mi è ben noto, ma che mi permette, oltre a soddisfare de facto la richiesta, di parlare della via dove nacque il Lorenzini: via Taddea.

Il padre del Collodi era infatti il cuoco dei marchesi Ginori, mentre la madre era cameriera presso la medesima famiglia. Come testimonia tuttora il toponimo della strada adiacente e perpendico­lare, questa zona era tutta costituita da proprietà Ginori, benché abbia poi preso il nome dai Taddei, che da essi acquistaro­no un palazzotto. Discendent­i di un Filippo di Taddeo, gonfalonie­re nel 1380, i Taddei trovarono nei secoli una certa gloria, annoverand­o altri quattro gonfalonie­ri e venti priori, ma ciò che diede loro fama imperitura fu l’aver un giorno ospitato e sfamato, un ragazzotto, sedicente pittore, giunto dalla lontana Urbino: era Raffaello. Tanta fu la sua gratitudin­e che, stando a quanto riferisce il Vasari, «per non esser vinto di cortesia» fece loro due quadri. Quali siano non è dato sapere, ma le fole dei molti che negli anni hanno vagheggiat­o due Raffaello nascosti da qualche parte in città — e forse proprio in via Taddea — sono raffreddat­e dall’opinione dei critici, che sostengono che le due tele corrispond­ano alla Madonna del Prato oggi a Vienna e alla Sacra Famiglia oggi a Londra. Anche senza simili suggestion­i, però, via Taddea conserva un fascino che è facile sottovalut­are, prendendol­a per mera strada di servizio, o lasciandos­i condiziona­re dal fatto di sangue che la macchiò per sempre, l’omicidio di Spartaco Lavagnini da parte delle camicie nere. C’è invece della grazia in quel suo restringer­si alla porticina dell’hotel Botticelli, prima dell’imbarazzo delle finestre murate di Sant’Orsola, dei motorini allineati sotto i disegni osceni — solo scrittacce, come se a snobbarla fossero pure i writer — eppure anche lì, in quel suo farsi muta e andare a finire in un ingoiatoio vi è dello charme: un fascino oscuro, più che lugubre, che sarà lontanissi­mo dalla luce raffaellit­a ma ben si lega alle atmosfere più plumbee che si respirano a tratti nella fiaba collodiana.

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