Corriere Fiorentino

L’Inferno? È un romanzo

Antonio Socci ha tradotto le terzine di Dante in prosa per i lettori di oggi «La foresta oscura parla di noi che ci sentiamo smarriti, confusi e soli nel mondo»

- Goffredo Pistelli

Si intitola «Amor Perduto. L’inferno di Dante per i contempora­nei» (Piemme), il nuovo libro di Antonio Socci

Una originale traduzione dell’Inferno che rivive in prosa e con le parole dell’italiano corrente mostrando la contempora­neità dei temi e dei personaggi danteschi

Il polemista torna alle origini. Antonio Socci, giornalist­a e scrittore, è oggi in libreria con Amor perduto (Piemme), il cui sottotitol­o dice tutto: L’Inferno di Dante per i contempora­nei. Di ritorno si tratta perché l’Alighieri e la Commedia furono l’oggetto dei suoi studi universita­ri a Siena, con Franco Fortini. Stavolta però, questo senese classe 1959, fa un’operazione pensata da molti ma realizzata da pochi: tradurre quel poema nel linguaggio moderno, far saltare la metrica e trasformar­e le terzine in un periodare narrativo. Per leggere Dante come fosse un romanzo.

Socci, lei si cimenta in quello che Pier Paolo Pasolini si propose di fare con la «Divina Mimesis», che lei richiama nell’introduzio­ne.

«Era anch’essa una riscrittur­a, che pubblicò ancora allo stato di abbozzo. Credo che ne sarebbe uscito qualcosa di grande, anche in una traduzione cinematogr­afica. Io faccio un altro viaggio». Vale a dire? «Quello con Dante è stato uno degli incontri più significat­ivi della mia storia. Sui banchi del liceo, ero un contestato­re, giudicavo incomprens­ibile quel poema di seicento anni prima e non era solo una questione di metrica». Invece? «Un giorno, facendo un Delacroix, «La barca di Dante» (Parigi, Louvre) gruppo di studio con alcuni universita­ri cattolici, fuorisede a Siena, rimasi folgorato: di colpo scoprii che questo fiorentino del ‘300 narrava le stesse cose vissute da me allora: le stesse inquietudi­ni e le stesse speranze».

Quali argomenti usarono per convertirl­a a Dante?

«Pensi un po’: mi fecero leggere un maoista e struttural­ista francese come Philippe Sollers che, in un suo saggio del 1967, raccontava la sua di folgorazio­ne dantesca. La passione per l’Alighieri, da allora, non è mai venuta meno. Fino a pensare di trasmetter­la a mio figlio Michelange­lo, quando è arrivato alla terza liceo. Scrivendo appunto questo libro».

Che infatti è dedicato a lui. E c’è riuscito?

«Purtroppo ho finito il libro dopo anni e lui fa l’università. Nel tempo occorso, ho maturato l’idea che sia errato mettere un 17enne davanti a un testo così. È come far ascoltare la Passione secondo Matteo di Bach a un ragazzino appena entrato al Conservato­rio. Ci si deve arrivare per gradi».

Per questo lei scioglie gli endecasill­abi, traducendo?

«Tradurre è il verbo giusto. Per rendere accessibil­e la narrazione e accendere il desiderio di affrontare il testo e afferrarne la poesia».

Perché gli ostacoli non mancano.

«Barriere linguistic­he, filologich­e, storiche e di metrica. Poi c’è uno sbarrament­o che gli studiosi non consideran­o ma è il più importante». Ossia? «L’esperienza di quel viaggio: come dice Romano Guardini, solo facendo l’esperienza di fede che ha fatto Dante si può capire fino in fondo il suo poema. Lo dice lui stesso, nel Paradiso: Trasumanar significar per verba/non si poria, però l’essemplo basti/a cui esperienza grazia serba. Il campo ermeneutic­o di questa opera è l’esperienza cristiana».

Anche se Dante, mi scusi, ha conquistat­o molti studiosi non credenti. Oltre Sollers, lei cita Galvano Della Volpe, grande marxista, lo stesso Fortini, o anche Alberto Asor Rosa.

«Certo, e nella scuola risorgimen­tale, per esempio, Dante veniva esaltato come per quel suo essere “ghibellin fuggiasco”, per quanto guelfo. Il fatto è che il poeta parla a tutti, specialmen­te a noi moderni».

E si torna al sottotitol­o del libro. In che senso parla ai moderni?

«La condizione iniziale della Commedia, la foresta oscura, parla di noi che ci sentiamo così smarriti, confusi, gettati nel mondo, soli. Ma per il poeta lì comincia un viaggio che lo trasforma, fino a diventare quell’uomo assorto nella bellezza e divinizzat­o, che vediamo alla fine del Paradiso. Ciò che sfugge è proprio il senso del “viaggio”. Però devo dire che molti critici laici hanno intuito i segreti di Dante più dei cattolici». Per esempio? «Tanti filologi, penso a Gianfranco Contini o Ignazio Baldelli. Poi Erich Auerbach, che ha scritto pagine fondamenta­li. In Italia oggi abbiamo dimenticat­o che la Commedia è il modello della nostra lingua e architrave della nostra identità nazionale mentre Harold Bloom, nel Canone occidental­e, la rilegge come uno dei pilastri della stessa identità europea e occidental­e. E mi pare fantastico che un poema d’amore sia tutto questo».

Eppure Dante è stato dimenticat­o a lungo, in Italia…

«Il ‘68 demolì il contenuto identitari­o nazionale del poema, e quello cristiano, già dimenticat­o, si perse del tutto.Triste è che sia stata anche la Chiesa a perdere di vista a lungo Dante. Eppure la sua cattedrale di versi è davvero un poema sacro, perché liturgico, concepito dentro la vita stessa della Chiesa».

Cosa ha imparato, su Dante, da Fortini?

«Anzitutto cos’è davvero la poesia: uno spartito musicale che bisogna sentir suonare e cantare. Dante poi è una sinfonia infinita…». Ma di Dante, cosa pensava? «Teneva corsi bellissimi. Mi commosse, quando si soffermò sul canto del Paradiso dove Dante viene, per così dire, “interrogat­o” su alcuni articoli di fede. Fortini colse meraviglio­samente l’originalit­à della risposta di Dante sulla resurrezio­ne della carne, spiegandoc­i come non fosse donata solo per ricomporre l’unità della persona e dare pienezza alla felicità in Paradiso, ma perché — aggiungeva — nulla di ciò che era stato amato in vita andasse perduto, ossia per rivedere quel volto amato, quel sorriso, quei capelli. Un’intuizione struggente».

 Al liceo giudicavo incomprens­ibile quel poema, poi un giorno a Siena rimasi folgorato: l’Alighieri narrava le stesse mie inquietudi­ni  La Chiesa lo ha perso di vista a lungo Eppure la sua cattedrale di versi è davvero un poema sacro, perché liturgico

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