«Nel ‘66 eravamo come Mastroianni»
Gianni Pettena: documentavano le emozioni in rapporto alla Storia
Gianni Pettena, lei nel ’66 era uno studente di architettura. Ribelle. E «Radicale».
«Non potevamo rinunciare a proporre la visione del mondo della nostra generazione, avremmo mancato a un compito etico».
Quello degli architetti radicali fu un atto «etico»?
«Eravamo come il Marcello Mastroianni di 8 e mezzo di Fellini: documentavamo i pensieri e i rapporti emozionali e concettuali con il tempo che stavamo vivendo. Perché eravamo coinvolti nella Storia. Dovevamo distruggere la cultura dei padri, quella della violenza e della guerra».
Come traduceste questo in architettura?
«Con la nascita di un sentimento ambientalista che non era mai entrato nel dibattito architettonico. E con una nuova visione della città: contro lo sviluppo illimitato e l’industrializzazione»
Da studente è diventato docente. E ha proseguito.
«Dopo la laurea ho insegnato a Minneapolis, e nel ‘73 ho avuto la cattedra a Firenze: da studente combattevo i padri, in America ho scoperto il confronto con i miei coetanei che erano anche miei studenti, veterani del Vietnam che amavano il modo trasgressivo di interpretare l’arte a Firenze. Da professore ho insegnato quello che avevamo fatto».
La mostra in che modo coglie quel momento?
«Ne coglie il clima, la musica con Silvano Bussotti a Giuseppe Chiari, era la Firenze che invitava John Cage e il Living Theater. Con il mio primo lavoro, il Palazzo di Arnolfo di San Giovanni Valdarno con le logge chiuse da pannelli neri, interpretavo la necessità di esprimersi in luoghi dove il passato è ingombrante e al contemporaneo vengono lasciati solo dettagli nelle smagliature del tessuto urbano». La sua valigia di «applausi»? «È il pezzo di una scenografia per un’opera di Vittorio Gelmetti: mette in guardia il pubblico colto che stava diventando anch’egli vittima della massificazione della comunicazione».
La vostra rivoluzione è durata un decennio. E si è fermata.
«Non ho mai smesso di esercitare la critica verso l’invecchiamento del pensiero».
Ma la visione della città che sognavate non si è realizzata.
«Purtroppo il futuro non è mai nelle mani degli architetti, è in quelle della politica». Senza eccezioni? «Il nuovo Teatro del Maggio è uno dei pochi esempi di denaro investito in qualità e per una funzione sociale, in un certo senso un nostro lascito». L’unico? «Anche il Palazzo di Giustizia in parte. Però ha il grave difetto di essere stato costruito 30 anni in ritardo sul progetto e 20 anni dopo dopo la morte dell’architetto».
Nacque un sentimento ambientalista che non era mai entrato nel dibattito architettonico