In Tibet con Desideri
La storia Il gesuita pistoiese fu il primo occidentale a raccontare la regione dell’Asia centrale Agli inizi del Settecento visse lì a lungo e si confrontò con la complessità filosofica di quei popoli
Palazzo Sozzifanti a Pistoia, fino al 10 dicembre, ospita una mostra intitolata La rivelazione del Tibet, a cura di Enzo Gualtiero Bargiacchi, Andrea Cantile, Oscar Nalesini e Massimiliano Alessandro Polichetti (accompagnata da un bel catalogo edito da Pacini). Al centro dell’esposizione la figura, dal profilo avventuroso, di padre Ippolito Desideri (1684-1733) che dalla città toscana, per desiderio di sapienza e vocazione missionaria, affinata negli studi compiuti sotto la guida della Compagnia di Gesù a Roma, intraprese un lungo viaggio verso il Tibet.
Il legame tra la Toscana e l’Oriente è complesso, stratificato, sottile, diffuso. I Medici sempre vollero tessere fili con l’India: Francesco Sassetti, fiorentino, fu a lungo a Goa, dove morì nel 1588 e ne cantò le bellezze, dei palazzi come della popolazione, con un accento moderno, che colpisce molto nella lettura delle sue lettere. Nella città «dorata», come vuole il termine portoghese che la illustrava per la magnificenza degli edifici e per le materie preziose che vi si trovavano, alla Chiesa del Bom Jesus si può vedere un mirabile monumento In mostra Sopra una foto di Mario Piacenza del 1913 sul fianco sinistro del ghiacciaio Durung-Drung. Sotto due immagini di abitanti del Tibet scattate da Felice Boffa Ballaran (1939) e Mario Piacenza (1913) toscano: il mausoleo di San Francesco Saverio, evangelizzatore dell’Oriente, che alla fine del ‘600 Cosimo III, in scambio con la reliquia di un cuscino appartenuto al santo e in omaggio alla propria devozione maniaca, commissionò a Giovanni Battista Foggini un mausoleo in marmi e bronzo, da inviare per mare con un viaggio assai lungo, di cui resta un diario minuzioso, iniziato nel 1697. Da Pontito, vicino a Pescia, era partito anche Lazzaro Papi, che lasciò un manoscritto a Lucca delle sue memorie di viaggio, edite con il titolo Ritorno dall’India.
L’impatto dei gesuiti nella comunicazione con le culture locali fu notevolissimo; da Prato si diffuse l’itinerario armonico di Domenico Zipoli, anch’egli gesuita, che si stabilì a Cordoba in Argentina, dove fece da tramite tra la cultura musicale europea e quella degli indios Guarany. Insomma i religiosi mettevano in atto quello che il bel libro di Jean-Christophe Frisch ha definito «barocco nomade», una visione dinamica della cultura come incontro tra genti e mondi. Ippolito Desideri nel 1712, finiti i suoi studi e la preparazione missionaria, iniziò un viaggio lunghissimo, che lo portò in primo luogo proprio a Goa, la «Roma d’Oriente», per iniziare poi un lento itinerario indiano, che lo condusse nel Kashmir e poi sempre più su nel passaggio tra Karakorum e Himalaia, di cui dette una descrizione precisa e affascinante. Infine, il 18 marzo del 1716 giunse a Lhasa, capitale di un regno misterioso.
In quel momento le conoscenze su quel territorio in Europa erano limitatissime. Fino a poco prima si pensava che lì dimorasse il misterioso Prete Gianni, un re cristiano, di cui ricostruisce benissimo i tratti il bel libro di Marco Giardini edito da Olschki nel 2016. Padre Desideri ha il senso della precisione, prende in esame gli usi e i costumi, disegna un corpus di note acute che seducono ancora oggi. A Lhasa egli si trovò di fronte al compito immane che tutti i missionari dovevano affrontare, ossia la presentazione del proprio sistema teologico. I dotti erano tolleranti, ma non avevano alcuna voglia di recedere dal proprio sistema, se non per la dimostrazione che vi fosse una dottrina migliore da poter abbracciare. Il padre pistoiese si trovò quindi a dover padroneggiare, in tempi brevi, una lingua e una cultura sconosciute. Ebbe quindi lo stesso slancio eroico che qualche decennio dopo mise alla prova duramente il linguista ungherese Sándor Csoma de Korös, che riuscì a redigere il primo dizionario tibetano-inglese.
Il «lama venuto dall’Occidente» in pochi mesi riuscì a padroneggiare non solo l’idioma, ma anche il complicato mondo culturale che lo sorreggeva. Il 6 gennaio del 1717, Desideri si presentò di fronte al sovrano Lhabzang Khan, recando un suo libro in versi tibetani, che trattava della dottrina cristiana. Il monarca ringraziò, ma disse all’ospite che gli necessitava un maggior approfondimento della complessa dottrina, che nei movimenti diversi del pensiero, trovava sempre il filo conduttore nel recidere la rete delle illusioni, o come viene espresso in modo lirico, «superare la cima della montagna». Nel monastero di Sera, poco lontano da Lhasa, poté trovare l’istruzione di cui aveva bisogno, e confrontarsi in un lavoro di studio complesso, di eccezionale rigore, con gli oltre diecimila testi che costituiscono il libro sacro del pensiero buddista, spesso ricorrendo alle opere del riformatore Tsongkhapa, di cui apprezzava specialmente come i suoi testi fossero un «compendio ammirabile, chiaro, elegante, sottile, ingegnoso, metodico e molto esatto». Lentamente il padre pistoiese poté comprendere come la religione tibetana, malgrado i suoi molti idoli, sia di fatto senza Dio, perché i simboli sono una raffigurazione di un procedimento interiore per cambiare la realtà. Padre Desideri non riuscì a mutare l’orientamento della classe dirigente tibetana, ma portò in Occidente una conoscenza approfondita su quei luoghi remoti, di cui riuscì, senza strumenti, per sua intuizione a padroneggiare la complessità filosofica e teologica, come nel Novecento hanno riconosciuto tutti gli studiosi del Tibet: Sven Hedin, Giuseppe Tucci e specialmente Fosco Maraini, che ha reso omaggio in un bell’articolo del 1984 sulla Nazione, a «quel gesuita che scriveva in tibetano».
Intuizioni Capì come la loro religione fosse senza Dio, i simboli raffiguravano il cambiamento della realtà