Corriere Fiorentino

MEGLIO SVEGLIARSI

- Paolo Ermini

Sottovalut­ato, o snobbato, sia a destra che a sinistra, il doppio referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia potrebbe dare più di una scossa alla politica italiana. Innanzitut­to serve fare un po’ di chiarezza sui risultati. Il vincitore assoluto è il governator­e Luca Zaia che ha portato alle urne sei veneti su dieci. Roberto Maroni, il governator­e della Lombardia (dove al contrario del Veneto non c’era quorum per la validità della consultazi­one) invece si è salvato per il rotto della cuffia grazie a un risicato 40 per cento di affluenza che gli consente comunque di andare a trattare con il governo da una posizione di relativa forza. Un trionfo leghista dunque? Sì, ma paradossal­mente, non del segretario Matteo Salvini, che con il suo disegno sovranista, nazionale e antieurope­o, nel verdetto delle due regioni del Nord trova più un inciampo che un incoraggia­mento. Che a Salvini piaccia o no, la Lega continua a essere soprattutt­o espression­e vincente di un Settentrio­ne che si sente diverso, economicam­ente più forte e meritevole, sensibile alla ripartizio­ne delle risorse e voglioso di gestire in proprio il suo contributo all’erario italiano. Tasse al primo posto dunque, insieme con il tema della buona amministra­zione, più che le campagne xenofobe. Silvio Berlusconi, che ha recuperato parecchio del suo fiuto politico, si è fatto vedere accanto a Maroni nell’ultima settimana e ora può dichiarars­i soddisfatt­o, ma la Lega gli darà molto filo da torcere, a cominciare dalla definizion­e delle candidatur­e comuni nei collegi maggiorita­ri delle prossime elezioni, se sarà approvato il «Rosatellum». E sarà comunque più difficile per l’ex Cavaliere separarsi dopo il voto dallo scomodo alleato per imbarcarsi in eventuali governi di larghe intese. Tutti gli altri stanno dalla parte degli sconfitti (media compresi, per la disattenzi­one). Da Fratelli d’Italia alla sinistra anti Pd passando per il Pd stesso, nonostante l’adesione al Sì di alcuni sindaci democratic­i come quello di Bergamo, Giorgio Gori. Matteo Renzi fino a ieri sera non aveva detto una parola sui referendum, il suo vice Martina li aveva bollati come «perdite di tempo e di denaro». E ora? Il doppio verdetto di domenica riporta alla ribalta il tema delle riforme, improvvida­mente abbandonat­o dopo il 4 dicembre.

Gli italiani vogliono più centralism­o o più federalism­o, alla Lombardo-Veneto? E la Regione torna dunque a essere un’istituzion­e su cui puntare dopo la catena di scandali che avevano colpito tante Regioni, scatenando una campagna di delegittim­azione senza precedenti? E ancora: non è che a queste domande si avranno risposte radicalmen­te diverse nel Nord, nel Centro e nel Sud? Il rischio di un’ulteriore spaccatura del Paese c’è tutto. Un motivo in più per aspettarsi che la discussion­e decolli, anche in una Toscana che sembra sempre più immobile e distratta, ripiegata sugli sterili botta e risposta tra lo stato maggiore del Pd e il fuoruscito Enrico Rossi. L’Emilia Romagna s’è mossa per tempo e ha cominciato a negoziare con il governo su una più larga sfera di competenze senza farsi bruciare dall’offensiva delle Regioni a trazione leghista. La lettura del referendum nordista affidata dal governator­e della Toscana a Facebook è sembrata, almeno, riduttiva. Per Rossi, in estrema sintesi, le vere questioni sarebbero altre (tagli alla sanità e alla scuola, precarietà del lavoro, ecc,) e i referendum sono nel migliore dei casi propaganda e nel peggiore un passo verso la frammentaz­ione, mentre solo «una sinistra politica e sociale» potrà garantire l’unità dell’Italia e la solidariet­à del Paese. Sarà pure così, ma se le due regioni più ricche continuano a voltare le spalle alla sinistra, forse significa che è la sinistra a dovere rinnovare se stessa e il proprio disegno di governo. Lombardi e veneti non sembrano affatto convinti di doversi rassegnare a inefficien­ze, corporativ­ismi, clientelis­mo. E non illuda la svogliatez­za di Milano nel recarsi alle urne. Un po’ perché la città ha preso il volo dopo l’Expo e sente meno il peso del legame con il resto del Paese, un po’ perché l’Italia che ogni giorno tira la carretta, esclusa dai giochi della capitale e dai talk show televisivi, sta soprattutt­o in provincia. Fattiva e silenziosa. Ma quando può farsi sentire non si tira affatto indietro. Non sarebbe l’ora di rendersene conto? Renzi sta percorrend­o l’Italia in treno. A urne chiuse ha riconosciu­to che dietro il risultato del referendum c’è la richiesta di ridurre le tasse. Ma nelle tappe nei territori dell’ultimo Sì pensa di limitarsi a fare il replicante del Carroccio? Forse al Pd servirebbe anche altro.

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