MEGLIO SVEGLIARSI
Sottovalutato, o snobbato, sia a destra che a sinistra, il doppio referendum sull’autonomia di Veneto e Lombardia potrebbe dare più di una scossa alla politica italiana. Innanzitutto serve fare un po’ di chiarezza sui risultati. Il vincitore assoluto è il governatore Luca Zaia che ha portato alle urne sei veneti su dieci. Roberto Maroni, il governatore della Lombardia (dove al contrario del Veneto non c’era quorum per la validità della consultazione) invece si è salvato per il rotto della cuffia grazie a un risicato 40 per cento di affluenza che gli consente comunque di andare a trattare con il governo da una posizione di relativa forza. Un trionfo leghista dunque? Sì, ma paradossalmente, non del segretario Matteo Salvini, che con il suo disegno sovranista, nazionale e antieuropeo, nel verdetto delle due regioni del Nord trova più un inciampo che un incoraggiamento. Che a Salvini piaccia o no, la Lega continua a essere soprattutto espressione vincente di un Settentrione che si sente diverso, economicamente più forte e meritevole, sensibile alla ripartizione delle risorse e voglioso di gestire in proprio il suo contributo all’erario italiano. Tasse al primo posto dunque, insieme con il tema della buona amministrazione, più che le campagne xenofobe. Silvio Berlusconi, che ha recuperato parecchio del suo fiuto politico, si è fatto vedere accanto a Maroni nell’ultima settimana e ora può dichiararsi soddisfatto, ma la Lega gli darà molto filo da torcere, a cominciare dalla definizione delle candidature comuni nei collegi maggioritari delle prossime elezioni, se sarà approvato il «Rosatellum». E sarà comunque più difficile per l’ex Cavaliere separarsi dopo il voto dallo scomodo alleato per imbarcarsi in eventuali governi di larghe intese. Tutti gli altri stanno dalla parte degli sconfitti (media compresi, per la disattenzione). Da Fratelli d’Italia alla sinistra anti Pd passando per il Pd stesso, nonostante l’adesione al Sì di alcuni sindaci democratici come quello di Bergamo, Giorgio Gori. Matteo Renzi fino a ieri sera non aveva detto una parola sui referendum, il suo vice Martina li aveva bollati come «perdite di tempo e di denaro». E ora? Il doppio verdetto di domenica riporta alla ribalta il tema delle riforme, improvvidamente abbandonato dopo il 4 dicembre.
Gli italiani vogliono più centralismo o più federalismo, alla Lombardo-Veneto? E la Regione torna dunque a essere un’istituzione su cui puntare dopo la catena di scandali che avevano colpito tante Regioni, scatenando una campagna di delegittimazione senza precedenti? E ancora: non è che a queste domande si avranno risposte radicalmente diverse nel Nord, nel Centro e nel Sud? Il rischio di un’ulteriore spaccatura del Paese c’è tutto. Un motivo in più per aspettarsi che la discussione decolli, anche in una Toscana che sembra sempre più immobile e distratta, ripiegata sugli sterili botta e risposta tra lo stato maggiore del Pd e il fuoruscito Enrico Rossi. L’Emilia Romagna s’è mossa per tempo e ha cominciato a negoziare con il governo su una più larga sfera di competenze senza farsi bruciare dall’offensiva delle Regioni a trazione leghista. La lettura del referendum nordista affidata dal governatore della Toscana a Facebook è sembrata, almeno, riduttiva. Per Rossi, in estrema sintesi, le vere questioni sarebbero altre (tagli alla sanità e alla scuola, precarietà del lavoro, ecc,) e i referendum sono nel migliore dei casi propaganda e nel peggiore un passo verso la frammentazione, mentre solo «una sinistra politica e sociale» potrà garantire l’unità dell’Italia e la solidarietà del Paese. Sarà pure così, ma se le due regioni più ricche continuano a voltare le spalle alla sinistra, forse significa che è la sinistra a dovere rinnovare se stessa e il proprio disegno di governo. Lombardi e veneti non sembrano affatto convinti di doversi rassegnare a inefficienze, corporativismi, clientelismo. E non illuda la svogliatezza di Milano nel recarsi alle urne. Un po’ perché la città ha preso il volo dopo l’Expo e sente meno il peso del legame con il resto del Paese, un po’ perché l’Italia che ogni giorno tira la carretta, esclusa dai giochi della capitale e dai talk show televisivi, sta soprattutto in provincia. Fattiva e silenziosa. Ma quando può farsi sentire non si tira affatto indietro. Non sarebbe l’ora di rendersene conto? Renzi sta percorrendo l’Italia in treno. A urne chiuse ha riconosciuto che dietro il risultato del referendum c’è la richiesta di ridurre le tasse. Ma nelle tappe nei territori dell’ultimo Sì pensa di limitarsi a fare il replicante del Carroccio? Forse al Pd servirebbe anche altro.