Corriere Fiorentino

Che il sogno sia con te

Un ragazzo di provincia, un congresso con strani mostri, un’avventura pericolosa Esce oggi il nuovo romanzo di Vanni Santoni, un urban fantasy con molta Toscana. Ecco un estratto

- di Vanni Santoni

Esce oggi, edito da Mondadori, «L’impero del sogno», il nuovo romanzo di Vanni Santoni. Un «urban fantasy» rutilante e pieno d’azione che mischia suggestion­i «alte» come quelle dell’immaginari­o di artisti come Dalì e Munch, e di scrittori come Kafka e Borges, con il mondo più «pop» e le strutture narrative dei videogioch­i anni Novanta, riuscendo al contempo a disegnare una tagliente parodia dello «Young Adult» e dei romanzi storici a sfondo esoterico. Ambientato tra il mondo dei sogni e il mondo reale — nello specifico, l’Italia della primavera 1997, illuminata dalla luce inquietant­e della cometa Hale-Bopp, tra Firenze e la Lunigiana, il Valdarno e Pisa, fino a Torino — «L’impero del sogno» porta il lettore nei panni di Federico Melani, un ragazzo di provincia introverso e problemati­co, in rotta con tutto e tutti, che comincia a fare un sogno ricorrente in cui è un importante delegato a un convegno pieno di esseri fantastici. La sua ostinazion­e a continuare il sogno lo porterà a vivere una pericolosa avventura che dal mondo onirico si sposterà ben presto anche nella realtà. Pubblichia­mo un estratto in anteprima. «Alla buon’ora!». Una voce sgradevole, che mi arriva in faccia come un cencio sabbioso, rimbalza per la grande, enorme sala riunioni col suo tavolo ovale, e a parlare è un vecchio, o meglio un uomo sui cinquanta ma messo proprio male, scavato, con in testa un copricapo bulboso e nero, scapolari istoriati e tunica e barba pure nere. Alla sua sinistra e alla sua destra due figuri simili a lui: uno con occhiaie belle marcate e cappello da monsignore; l’altro con dei baffacci ispidi, un dente d’oro e il turbante, sempre nero.

«Suvvia, Sacerdoti, non siate indisponen­ti. La sala è ancora vuota per più di metà». Una voce nota, ma come più pastosa, riverbera nella stanza. «Benvenuto, Delegato d’argilla».

A parlare è di nuovo l’Uomo in Camicia... Mi fa l’occhiolino. Ricambio con un cenno. Alla sua sinistra, un uomo tutto gallonato, come un ammiraglio o un generale d’aviazione, con dei minacciosi occhiali neri a mascherina; a destra, un tennista. Proprio un giocatore di tennis anni Settanta, fascia in testa, capelli lunghi, jersey bianca, racchetta in legno posata sul tavolo... Sono seduti, come del resto quei “Sacerdoti”, su tre sedie collegate tra loro, simili a quelle che si trovano nelle aule universita­rie o nelle sale d’attesa. Tutto intorno al tavolo ce ne sono una moltitudin­e, tutte uguali e tutte vuote, più un altro tris identico ma cento, duecento volte più grande, nella posizione corrispond­ente al sudest.

Solo altri due terzetti di poltroncin­e sono occupati: a due posizioni di distanza da quelle coi braccioli, ecco levitare sulla seduta la tsantsa che mi aveva terrorizza­to prima; in mezzo, arrotolato sulla coda, un essere ibrido e disgustoso, che comincia serpente, si fa millepiedi e poi estende otto zampe da ragno da un ventre biancastro prima di sfoggiare una testolina femminea, dai capelli biondi, ma più piccola del normale, e per questo spaventosa; alla sua destra, una misera creatura umanoide, con le gambe attaccate direttamen­te sulla testa, senza busto né braccia, e tuttavia recante sulla zucca, e con aria ben insolente, un pomposo cappello di velluto rosso, decorato da una sproporzio­nata piuma di pavone.

«Perdonate gli Spiriti degli interstizi per il benvenuto un po’ brusco» dice ancora l’Uomo in camicia. «A volte non riescono a resistere dal fare le feste».

«Non vi permetto di parlare del mio collega come di un cane» stride l’essere dal volto di ragazza.

«Perdonatem­i anche voi, madama: era solo una battuta per alleggerir­e questo momento di attesa. Di attesa e magari, per alcuni, di imbarazzo».

«Sedetevi, Delegato d’argilla» dice una voce all’estrema destra. Un set di poltroncin­e, quello corrispond­ente all’asse est dell’ovale, è adesso occupato, vi siedono tre vegliardi corrosi dalla più antica vecchiaia, velati di polvere e biancore, così come candidi sono i loro occhi, senza iride né pupilla, sotto le fronti bombate e rugose: solo globi bianchi sporcati da un grigio di cispe e secoli. Li differenzi­ano nell’abisso della vecchiaia solo vaghi tratti: uno ha gli occhi più a mandorla degli altri; quello a destra ha un naso aquilino simile a un becco; quello al centro si distingue per la fronte anche più prominente e la barba bifida.

«Ma sì» aggiunge l’Uomo in camicia, «dai retta ai Sapienti...».

«Io non sono sicuro di...» dico, ma intanto avanzo, e in qualche modo ho la certezza, so, per via di quel sapere noetico che è tipico dei sogni, che il mio tris è quello dritto di fronte a me. Sono entrato nella sala da una porta nell’angolo in basso a sinistra e il mio tris di poltroncin­e corrispond­e all’esatto asse sudovest dell’ovale. Chissà come, so anche, approccian­dolo, poggiando la mano sulla spalliera di legno chiaro, lucido, che la mia posizione è quella a sinistra.

«Una volta si usava aspettare il capodelega­zione, prima di sedersi» sento borbottare il vegliardo con il naso aquilino, la zucca quasi calva piena di macchie color fegato sul bianco polveroso di quella pelle di carta. In quella, si spalanca il portone sudest – era così grande? – ed entrano, uno dopo l’altro, con immensa gravità e grazia e potenza, ma soprattutt­o con immensa arroganza, i Draghi. I Draghi! Rosso il primo, come quello della confezione di Dungeons & Dragons, e al suo ingresso si alza la temperatur­a nella stanza; si appollaia nella seduta centrale. Aureo il secondo, e la sala si riempie di luce; si posiziona a destra. Azzurro di zaffiro il terzo, con lui refoli d’aria gelida che riportano la temperatur­a alla normalità: ed eccolo a sinistra. A ogni movimento di un certo rilievo, gemme e monete si staccano dagli interstizi delle loro squame e tintinnano a terra. Non parlano a nessuno, ma tutti squadrano, pieni di boria, e quasi tutti abbassano gli occhi; nessuno osa parlargli, solo l’Uomo in camicia azzarda un cenno di saluto a quello centrale, che capisco essere il capodelega­zione, proprio come lo deve essere lui. Il drago lo irride stringendo la fessura rettile delle pupille e lasciando andare uno sbuffetto di fumo sulfureo da una narice.

Entrano uno dopo l’altro con immensa gravità e grazia e potenza, ma soprattutt­o con immensa arroganza, i Draghi. Rosso il primo, aureo il secondo, azzurro di zaffiro il terzo... Non parlano a nessuno, ma tutti squadrano

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Magritte, «Il falso specchio» (New York, The Museum of Modern Art)
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I prossimi appuntamen­ti con l’autore saranno al Lucca Comics and Games e al Pisa Book Festival
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