E QUELLA SCOMMESSA?
La simulazione sui collegi uninominali del Nord ha fatto ghiacciare il sangue nelle vene dei senatori del Pd mentre stavano approvando, a colpi di fiducia, la nuova legge elettorale: il loro partito non ne conquisterebbe neppure uno in base ai rapporti di forza stimati attualmente. Dopo i referendum in Veneto e in Lombardia che hanno riportato alla ribalta la questione settentrionale, incombono le regionali siciliane e tutte le previsioni dicono che sarà grassa se il candidato governatore del Pd arriverà terzo. Ma anche ne resto del Sud le prospettive per Renzi & C. sembrano tutt’altro che entusiasmanti. Al Pd resta dunque il suo tradizionale serbatoio di voti, quella terra di mezzo composta soprattutto dalle regioni storicamente rosse, anche se nessuna di esse è ancora un monopolio esclusivo del partiti di maggioranza relativa, come hanno dimostrato le ultime tornate amministrative in Toscana. Il cosiddetto Rosalletum spinge verso la formazione di coalizioni, ma anche da questo punto di vista il Pd non parte affatto avvantaggiato rispetto al centrodestra (i Cinquestelle si chiamano volutamente fuori da ogni possibile intesa). E non a caso il segretario regionale toscano, Dario Parrini, lo stesso giorno in cui Palazzo Madama approvava la riforma elettorale, nell’intervista al Corriere Fiorentino proponeva un accordo con gli scissionisti di Mdp, che pur avevano bollato il nuovo sistema elettorale come un colpo di mano. Vedremo la conclusione della manovra, certo è che Renzi si muove con evidente tatticismo in quella sorta di palude politica provocata dal referendum del 4 dicembre: ammiccamenti all’Italia del populismo, tentativi incerti di riaprire un dialogo a sinistra, corteggiamento dell’elettorato moderato. Quando Renzi, da Palazzo Vecchio, si lanciò sulla scena politica nazionale, sparigliandola, con la proposta di rottamare la classe dirigente della sinistra italiana, ad alcuni sembrò un provocatore di provincia o al massimo un giovane nutrito di velleitarie ambizioni. In poco tempo fu invece chiaro che quella provocazione era destinata a farsi strada e, nel volgere di pochi anni, portò Renzi alla guida del suo partito e del governo.
In quella fase l’ambizione dell’ex sindaco di Firenze si legava a un’attesa di cambiamento diffusa nell’elettorato del centrosinistra, ma non solo: lo sfondamento del Pd alle europee del 2014 ne fu la chiara dimostrazione. Poi sono andate in porto alcune importanti riforme, ma l’obiettivo più importante, quello di una riforma istituzionale che mutasse la logica decisionale della nostra democrazia, è sfumato. Certo, Renzi si è riciclato nella contesa politica attraverso le primarie del suo partito, ma tutto è avvenuto senza un new deal, un nuovo corso di idee, di identità riconoscibile, e senza una nuova classe dirigente. Intendiamoci: la nuova legge elettorale consentirà comunque al Pd di ottenere un buon numero di parlamentari, ma con quale orizzonte se non quello di contare nel gioco di rimessa che comincerà all’indomani delle prossime politiche? Può bastare a Renzi? Sicuramente non era questa la scommessa del Renzi rottamatore. E non è passato un secolo…