UNA LEOPOLDA DI RITORNO (IN CERCA DI UN REGISTRO)
«Sarà una Leopolda più simile a quella delle origini, anche perché quest’anno non ho più in prima persona la responsabilità del Governo e quindi potremo scatenarci di più», dice Matteo Renzi. Il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, insomma, può stare molto sereno.
Una certa esperienza in fatto di Leopolde, per averle seguite dalla prima del 2010 alla più recente del 2016, consente di conservare una memoria storica di quella assemblea. Ogni edizione ha avuto il suo scopo e le sue conseguenze; la prima nel 2010 con Pippo Civati, versione co-rottamatore, serviva a Renzi per farsi conoscere e a raccogliere un po’ di amministratori locali sparsi per l’Italia che poi sarebbero stati utili per le primarie del 2012 e il congresso del 2013. Quella del
Cronaca, cronaca politica. Dai palazzi romani, ma anche dalle piazze (e da qualche retrobottega) di tutta Italia. Per capire che cosa ci è successo nell’ultima settimana. E cosa c’è da aspettarsi da quella successiva
2011 sembrava essere preparatoria a una eventuale campagna elettorale in caso di elezioni anticipate (ma Giorgio Napolitano, caduto Berlusconi, non sciolse le camere e dette l’incarico a Mario Monti). La Leopolda 3 arrivava pochi giorni prima delle primarie contro Bersani (perse da Renzi), mentre la Leopolda 4 era quella della vittoria annunciata al congresso. Poi è arrivata la prima Leopolda governativa e via così, fino a quella di quest’anno in cui Renzi annuncia di voler tornare allo spirito originario. Quando c’erano amministratori da tutta Italia, soprattutto quelli, non era ancora presente il ceto politico, non c’erano ministri, l’assalto al cielo della dirigenza era appena partito, c’erano i cento tavoli con le proposte prodotte dai leopoldini (ma quante di quelle indicazioni sono mai arrivate sul tavolo di Renzi?). C’era l’entusiasmo della novità, poi la novità è diventata routine, lo sbarco a Palazzo Chigi ha reso meno urgente la Leopolda e la sconfitta al referendum ha impresso una svolta in negativo per la cavalcata renziana, che fino a quel momento sembrava inarrestabile.
Restano molte domande: davvero Renzi può riproporre lo schema Leopolda dell’assalto al «sistema» come se nel frattempo non fosse successo nulla? Il segretario del Pd, che pure applica da anni uno schema fisso, non è più lo stesso, non fosse altro perché guida il Pd dal 2013, è stato presidente del Consiglio. Il suo partito ha perso pezzi, forse ne perderà altri, può tutto sommato pensare che queste scissioni siano un male (o un bene) necessario, ma insistere sulla pallottola dell’outsider che senso ha? Renzi non è più un outsider, anzi dal suo punto di vista può legittimamente rivendicare dei risultati. Che qualcosa non abbia funzionato pare ormai evidente, perché non riconoscerlo? Perché non riconoscere che insistere in alcune scelte autarchiche (il Giglio Magico) è stata una scelta non felice? E forse sarà ancora più evidente oggi dopo le elezioni regionali in Sicilia, dove la sfida è fra il centrodestra e il M5S, con il Pd, almeno stando ai sondaggi, ben lontano dalla vetta. L’ex sindaco di Firenze dice da giorni che le elezioni siciliane sono solo un voto locale, che non avranno nessun impatto sulla sua segreteria. Le elezioni «sono importanti soprattutto per il futuro di questa meravigliosa e difficile isola. Abbiamo investito molto in questa terra e chi governerà i prossimi cinque anni potrà gestirli al meglio. Dunque che vinca il miglior candidato e la migliore squadra». Da notare l’entusiasmo bruciante con cui Renzi ha sostenuto il candidato Fabrizio Micari. Oltretutto, il segretario del Pd neanche s’è affacciato in Sicilia, proprio per non mettere la faccia sulla sconfitta (memorabile la risposta di Dario Nardella qualche giorno fa a #cartabianca data a Tommaso Labate: «Perché Renzi non è andato in Sicilia?» «Può darsi anche che ci andrà nei prossimi giorni. Io insisto sul fatto che i siciliani oggi vogliono vedere politici che danno risposte concrete»).
Per il gruppo dirigente del Pd la spia più importante dei problemi emersi in questi anni non sono gli addii di D’Alema o Bersani, forse scontati, ma la fuga di persone che hanno seguito Renzi fin dalla prima Leopolda. Amministratori locali, professionisti, scrittori, giovani, cittadini più o meno comuni, insomma la base elettorale del renzismo con cui è stato ottenuto il successo che abbiamo visto e raccontato in questi anni. Il problema non è D’Alema che se ne va, il problema è la delusione riservata a chi si era avvicinato con entusiasmo.
Davvero Renzi può riproporre lo schema Leopolda dell’assalto al sistema come se niente fosse successo? Non è più un outsider, anzi può legittimamente rivendicare dei risultati Perché non riconoscere ciò che non ha funzionato?