Le licenze in mano a pochi: sette su dieci sono straniere
In dieci anni sono una trentina le licenze cedute dai bancarellai italiani di San Lorenzo agli stranieri. E su un totale di 242 concessioni sette su dieci sono gestite da iraniani, bengalesi e pakistani. Scorrendo l’elenco di proprietari e affittuari delle licenze balza agli occhi il dato più eclatante e per certi versi ormai non più sorprendente: tante licenze, nelle mani di pochi.
In strada, tra i banchi, ci sono quasi solo stranieri. Gli italiani sono spariti dal mercato di San Lorenzo. Quelli che sono rimasti nel quartiere stanno nel chiuso dei loro negozi, lasciando al freddo e al vento, come dicono loro, i dipendenti bengalesi e pakistani. Tanto che a volte diventa persino difficile chiedere lumi su una borsa o una maglietta, perché il venditore dell’italiano conosce sì e no tre parole. Ma la geografia delle 242 licenze del mercato di San Lorenzo, tra nomi dalla grafia così complessa da diventare difficile da scrivere, racconta una verità ulteriore: gli italiani non sono quasi più neppure proprietari.
Le licenze
Saranno le tante rivoluzioni volute da Palazzo Vecchio, con traslochi, battaglie in tribunale, annunci, sparpagliamenti, marce indietro, sarà lo spettro della Bolkestein, con il rischio di una tabula rasa dei diritti acquisiti, tanti fiorentini hanno preso le loro vecchie licenze e le hanno vendute: delle 242 licenze del mercato, il 72 per cento è straniero. Solo 66 licenze sono di proprietà di italiani. Trenta in meno rispetto a dieci anni fa. Gli stranieri oggi ne hanno ben 169. Mentre 7 appartengono a società dai nomi impersonali. Tanti cognomi di origine persiana o araba, in nome di quell’ondata che cominciò a cambiare il volto del rione nei primi anni ottanta, ma anche moltissimi bengalesi, la new wave che arriva dall’Oriente. «Quando ci hanno traslocati da piazza San Lorenzo a piazza del Mercato Centrale, Palazzo Vecchio annunciò la riqualificazione del mercato, mentre noi dicevamo che ci stavano mandando in rovina – dice uno degli ambulanti “trasferiti” nel 2014 – Il risultato è che fino a pochi anni fa una licenza costava 80, 100 mila euro. Oggi, a seconda della posizione, le stesse licenze vengono vendute a 50 mila euro, altre volte 20 mila. In un caso, siamo arrivati a 10.800 euro. Praticamente regalata. In piazza del Mercato centrale, riuscire a far tornare i conti è quasi impossibile». Gli stranieri sono ormai talmente padroni del mercato che delle 42 licenze che risultano affittate dal titolare ad altre società o persone, nessuno straniero paga i diritti di sfruttamento a un italiano; viceversa 16 italiani versano l’affitto a stranieri. Chi conosce bene San Lorenzo però racconta che quei titolari di licenze «sono quasi italiani, sono gli iraniani che ormai fanno parte della storia del rione».
I cartelli
Il presidente del consorzio del mercato di San Lorenzo, Renato Coppola, racconta di non essere titolare di alcuna licenza; ma anche che nella sua famiglia i parenti ne posseggono ben sei. Eppure il cognome Coppola non risulta neppure nell’elenco dei titolari di licenze. Così, nel groviglio di sigle e di cognomi, molti trust rischiano di non risultare evidenti. Ma i «cartelli» dei multiproprietari sono numerosi. E pensare che la regola comunale impone che una partita Iva possa essere proprietaria al massimo di due licenze. Ma basta intestarsene un po’ con il nome e cognome, un po’ con il nome della ditta, e la norma è aggirata. Uno storico ambulante fiorentino, che oggi è rimasto titolare di tre licenze, racconta che una volta ne aveva sei. Dalla lista risultano così 32 multiproprietari (che hanno dai due fino ai cinque permessi) per 77 licenze complessive. Solo sette dei 32 multiproprietari sono italiani, gli altri 25 arrivano dall’estero. Ma nel profluvio di persone e di sigle di società, si coglie che i cartelli sono molto più ampi.
I cognomi che ricorrono sono spesso gli stessi. Così, ce ne sono due persiani che ricorrono ben sette volte ciascuno. E ci sono anche numerosi casi di nomi apparentemente diversi che probabilmente si riferiscono alla stessa persona o alla stessa famiglia: il persiano e il bengalese hanno alfabeti diversi da quello latino e, quindi, i nomi, per essere riportati nei nostri documenti ufficiali hanno bisogno di essere «traslitterati». E questa trascrizione non è una scienza esatta. Succede perciò che lo stesso nome possa essere scritto in modo diverso. Così, c’è un cognome bengalese che giusto con una «o» al posto di una «a» compare in totale la bellezza di nove volte.
La paccottiglia
Il mercato di San Lorenzo una volta era il grande centro commerciale di Firenze. Tra i banchi, c’erano le migliori proposte della tradizione artigiana fiorentina: le borse, i guanti, i cappelli, i centrini, le ceramiche. Fino a una ventina d’anni fa, gli ambulanti fiorentini prendevano mutui per acquistare le licenze, perché usavano le bancarelle per vendere quel che producevano nell’azienda di famiglia. Ma sono stati i fiorentini per primi a strizzare l’occhio ai torpedoni dei turisti: così sono comparsi i souvenir, le magliette delle squadre di calcio. Mentre la qualità di borse e giubbotti si è via via abbassata. «È una guerra a perdere – racconta un negoziante del quartiere – Per un turista che passa di fretta è difficile capire la differenza tra una borsa buona e una no. Così, alla lunga, tutti si adattano a vendere quella che costa meno».
Oggi è quasi tutto «made in Osmannoro», nelle fabbriche cinesi. A far da traino alla paccottiglia è anche il fatto che gli italiani titolari di licenza assumono dipendenti stranieri (approfittando di poterli pagare poco, anche trenta euro al giorno per 13 ore, neanche 2 euro e 50 l’ora) che a volte parlano malissimo l’italiano. Così, se uno dei pochi «storici» rimasti, come il cappellaio Roberto Ballerini, è in grado di spiegare che i suoi prodotti sono di qualità, è difficile pensare che il timido bengalese al banco delle ceramiche di Montelupo sia in grado di raccontarne la storia e le virtù. Con le magliette di Messi e Cristiano Ronaldo o le borse a 25 euro è tutto molto più facile.
La fuga In dieci anni sono una trentina le concessioni non più gestite da italiani