LA SCUOLA TOSCANA DELL’IMPARZIALITÀ (FANFANI ERA ALTRA COSA)
Chi è stato all’inizio di questa XVII legislatura accanto a Pietro Grasso e a Laura Boldrini, ma che dico accanto, al di sopra, vero deus ex machina, con la complicità di Nichi Vendola? Elementare, Watson: l’allora segretario del Pd Pier Luigi Bersani. Immaginifico com’è, che cosa ti combina? Candida alla presidenza dei due rami del Parlamento personalità che nel loro campo hanno dimostrato di saperci fare, ma che fino ad allora Palazzo Madama e Montecitorio li avevano visti solo nelle cartoline illustrate. Un’anomalia bella e buona. Perché anche da noi ha sempre prevalso la cosiddetta seniority rule. I candidati non solo dovevano avere una certa anzianità di servizio ma avevano dimestichezza con il latinorum e conoscevano a puntino le regole del gioco. A cominciare dai regolamenti parlamentari. Perfino la chiacchierata Irene Pivetti, nella XII legislatura presidente di Montecitorio per grazia ricevuta da Umberto Bossi, era stata già deputato per due anni.
Gratta gratta, l’inesperienza ben presto è saltata fuori. Basterà ricordare che Grasso si è assunto la responsabilità di estromettere Silvio Berlusconi da Palazzo Madama ricorrendo al voto palese quando l’articolo 113, terzo comma, del regolamento dice l’esatto contrario. Stabilisce infatti, senza possibilità di equivoco, che sono effettuate a scrutinio segreto le votazioni comunque riguardanti persone. E quell’avverbio «comunque» la dice lunga. A sua volta la Boldrini studia, è vero, da accademica della Crusca per quella sua mania di coniugare al femminile ogni cosa. Ma poi commette errori procedurali non da poco, come quando ha di recente giudicato ammissibili mozioni di sfiducia nei confronti del governatore della Banca d’Italia escluse dalla legge.
Ma adesso è stato superato ogni limite. Siamo alle comiche finali. Alle torte in faccia di Ridolini. Grasso restituisce la tessera del Pd solo adesso, mentre avrebbe dovuto sospendersi dal partito al momento del suo insediamento nel seggio più alto di Palazzo Madama. E a ogni buon conto, dopo le sue dichiarazioni nei confronti del Pd, avrebbe dovuto per coerenza rassegnare le dimissioni da presidente del Senato. Non pago, persevera nell’errore. Al festival della letteratura di Pescara ha pronunciato queste precise parole: «Non so se sia uscito io dal Pd o se è il Pd che non c’è più. Il Pd era quello di Bersani…». E si è complimentato con la Boldrini perché all’assemblea di Campo progressista ha superato a sinistra l’enigmatico Pisapia e tra gli applausi della platea romana si è accreditata, rimanendo comodamente alla guida di Montecitorio, come leader di partito. L’ha lodata, Grasso, proprio perché lei ora fa politica a tutto campo. Incredibile!
Certo, anche Fausto Bertinotti, Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini sono stati leader di partito. Però mai si sono spinti a tanto. Anzi, proprio perché consapevoli della loro casacca, hanno sempre cercato di apparire imparziali. A modo suo lo è stato anche l’ex presidente di Alleanza Nazionale. Sotto sotto ha fatto di tutto per sbalzare di sella Berlusconi. Ma non ha mai dato prova dal banco della presidenza di manifesta parzialità. Dopo tutto, lo stile è un po’ come il coraggio di manzoniana memoria: se uno non ce l’ha, non se lo può dare. Veniamo ai precedenti. Giuseppe Saragat si dimise da presidente dell’Assemblea costituente dopo la scissione di Palazzo Barberini e la fondazione di un nuovo partito. Cesare Merzagora si dimise da presidente del Senato perché alcune sue dichiarazioni all’acqua di rose sui partiti vennero criticate. Sandro Pertini, che come Enrico De Nicola aveva le dimissioni facili, si dimise due volte da presidente della Camera: una prima volta a seguito della scissione socialista e una seconda per le sue critiche alla giungla retributiva.
Tuttavia il caso più interessante è quello di Amintore Fanfani. Ma sì, il mezzo toscano che più lo buttavi giù e più si tirava su. Il montanelliano «Rieccolo» è stato per sei volte presidente del Consiglio e per cinque volte presidente del Senato. Nessuno più di lui è stato un politico a tutto tondo fin dai tempi dell’Assemblea costituente. E nessuno, a dispetto del suo carattere sanguigno, è stato più imparziale di lui nella conduzione dei lavori di Palazzo Madama. Tant’è che ogni volta che riassumeva la carica, tutti — dai commessi al segretario generale e ai senatori di ogni parte politica — esclamavano a gran voce: «È tornato il Presidente!». Orbene, il 26 giugno 1973 Fanfani rassegna le sue dimissioni irrevocabili da presidente del Senato prima — si badi, prima — di accettare la carica di segretario della Dc. Le considera irrevocabili perché fermamente convinto che non si possano cumulare cariche così diverse come la presidenza di un ramo del Parlamento con la segreteria di un partito politico.
Altri tempi, si dirà. Sicuro. Resta il fatto che Fanfani era tutt’altra cosa. E aveva tutt’altra stoffa. Il suo ineccepibile comportamento rappresenta un monito per noi contemporanei. Se gli stessi custodi calpestano ogni regola, tutto è perduto. Ci pensino bene, i Giacomini di turno.
Conflitti Il presidente del Senato restituisce la tessera del Pd ma resta al suo posto, la presidente della Camera rimane a Montecitorio ma si accredita come leader di partito. Se gli stessi custodi calpestano ogni regola, tutto è perduto