E c’è anche il «Leone» Hassan Khan Un mix di elettronica e musica araba
influenza gli altri — spiega — Ma penso che sia la singola opera a scoprire la forma e il mezzo di cui ha bisogno: in un certo senso è l’opera a scoprire cosa è e per cosa è stata ideata». Antico e postmoderno convivono nella sua produzione come nel brano Taraban che ascolteremo stasera «in cui ho rielaborato — racconta — due canzoni classiche arabe del primo Novecento scritte da Yusuf El Manialawy». Per questa fusione «traggo insegnamento dalle forme esistenti e cerco di comunicarle attraverso un linguaggio personale». Lo spettacolo si chiama Superstructure nome che conferisce a tutti i concerti perché ognuno è un tassello di un work in progress che sta creando nel corso degli anni. «Qualche volta — dice — ne seleziono alcune tappe che eseguo in un concerto continuo, come fossero parte di un unico brano». Ne scaturisce un esperimento sempre nuovo in quanto nel tempo «alcuni brani vengono abbandonati, altri vengono aggiunti, a volte alcuni brani del mio repertorio ritornano in una forma nuova».
24 Frames è anche un ritorno alle origini, un modo per riportarci al grado zero del cinema e cioè a un’immagine di oscura bellezza, capace di contenere mille potenziali storie: «È un film inclassificabile proprio per questo — spiega ancora Ahmad — come molte delle opere di mio padre. Quando andavo con lui in giro per i festival, dove spesso i suoi film venivano apprezzati, ma poco capiti, ricordo che gli si spezzava il cuore». Chiediamo ad Ahmad Kiarostami se conserva un’immagine del padre che porta nel cuore più delle altre: «Più che un’immagine è un sentimento — risponde — quello di aver vissuto accanto a un uomo che osservava il mondo dall’esterno con ironia e giocosità. Come uno che guarda la realtà da una finestra, cercando di catturarne l’essenza». Il cinema non è forse proprio questo?