«Io, Riina e una domanda in sospeso»
La morte del boss di Cosa Nostra: il procuratore Nicolosi ricorda l’inchiesta sui Georgofili
«Chi ha incontrato prima delle stragi?». È questo la domanda che Giuseppe Nicolosi non è riuscito a fare a Totò Riina. Nel 1993 Nicolosi era un giovane Pm della Dda, affiancò Gabriele Chelazzi nell’inchiesta sull’attentato di via dei Georgofili. «La prima volta che lo incontrai — racconta Nicolosi — fu all’Ucciardone. Non volle rispondere alle nostre domande, parlò delle sue origini umili. Ma era un uomo che con una parola ordinava omicidi».
È morto alle 3 di notte di ieri, a Parma, in ospedale, Totò Riina. Uno dei responsabili, condannato all’ergastolo, della più grave ferita di terrorismo e mafia di Firenze di tutta la storia repubblicana: cioè la strage dei Georgofili. Ventisette maggio del 1993, 1,04 di mattina: cinque morti, 48 feriti, 7 quadri degli Uffizi distrutti per sempre, il 25% di tutte le altre opere d’arte danneggiate. Una delle tante stragi per le quali è il capo mafioso è stato condannato. Ma la ferita che ha provocato nel capoluogo toscano è ancora aperta. Lo è nelle parole dei familiari delle vittime. Dei politici che allora guidavano la Regione ed amministravano Palazzo Vecchio. In quelli che ancora oggi chiedono di continuare la ricerca della verità per la «strage del 41 bis», la strage che doveva obbligare lo Stato a togliere il carcere duro per i mafiosi, come la definì il Procuratore Gabriele Chelazzi, grande accusatore nell’inchiesta dei Georgofili. E il fatto che Riina sia stato accompagnato, nelle ultime ore della sua vita, dai familiari, ha scatenato anche polemiche, compresi migliaia di commenti sui social, sul senso del perdono — possibile, impossibile — al momento della morte. «Gli hanno concesso i familiari al suo letto, lui che era al 41 bis (carcere duro e isolamento per i mafiosi e terroristi ndr) come non succede spesso neanche a semplici carcerati, neanche per i propri parenti in ospedale» sbotta Giovanna Maggiani Chelli, presidente dell’associazione familiari vittime dei Georgofili. «Lo Stato non ha dimostrato forza concedendogli i familiari, una deroga al 41 bis, perdonando, ma lo ha fatto perché ha una specie di complesso. Ma cosa vuoi perdonare! Non c’è niente da perdonare. Per Riina non può esistere la categoria del perdono» prosegue Chelli, che ricorda come Riina, già in carcere, «ha sicuramente dato il suo assenso ed era informato della strage di Firenze, decisa ad aprile del ‘93».
Quella mattina del 27 maggio, davanti al luogo della strage, c’era tutta la giunta di Palazzo Vecchio guidata da Giorgio Morales. Con lui, anche l’assessore alla casa Alberto Tirelli. «Decidemmo, anzi Morales decise e si prese questa responsabilità, di sequestrare 20 appartamenti alle assicurazioni Generali, per dare una risposta alle venti famiglie senza casa. Una delle tante cose fatte nei confronti delle vittime, in quelle ore» spiega Tirelli. Una decisione forte, per una giunta di pentapartito come era quella di Morales, ma che poi portò «ad un accordo bonario con le Generali, tanto che alcune famiglie ancora vivono in quelle case». Perdonare Riina? «Dio perdona. Il perdono per lui non mi appartiene». Il ruolo di Morales, «di grande dignità e forza morale, senza guardare ai colori politici» lo ricorda anche Vannino Chiti. L’allora presidente della Regione Toscana era allora nei Ds, Morales socialista «ma questo non impedì di organizzare la grande manifestazione, la risposta dopo la strage, in piazza Signoria. Anche io ero a Firenze e ci precipitammo, per poter dare subito gli aiuti ai familiari delle vittime, ai feriti. Un lavoro che è proseguito poi nel sostegno al recupero delle opere d’arte, degli immobili», ricorda Chiti. Anche lui toccato dal dibattito sul senso del perdono per un personaggio come Riina, che ha ucciso o fatto uccidere donne, bambini, servitori dello Stato, aderenti alla stessa mafia, per diventarne il capo. «Il perdono — commenta Chiti, che è cattolico — è un fatto individuale. È importante che chi è stato colpito abbia la forza morale per provare perdono. Ma una comunità, uno Stato, non può perdonare chi si è macchiato di crimini gravi come i suoi, criminalità organizzata diventata terrorismo. Come dissero gli israeliani quando condannarono Eichmann, criminale nazista: perdonare i crimini contro l’umanità è rinnegare l’umanità stessa. Ora occorre puntare sulla memoria, e proseguire nella ricerca della verità contro l’attacco allo Stato».
«Un boia responsabile di enormi delitti che muore da perdente». Così il presidente regionale Enrico Rossi definisce Riina. «E comunque, è morto in regime di detenzione 41 bis, questo è quanto dovevamo ai nostri morti», conclude il presidente.