Quando palazzo Torrigiani faceva scoprire il mondo Ora è rimasta solo la storia
Non era così, ma quella «fake news» in vernacolo aveva un piccolo fondamento. Il museo di via Romana accoglie una straordinaria galleria di scheletri, animali ma anche umani, il che ne spiega la sinistra popolarità quando non era possibile accedere ai misteri dell’anatomia con un clic sul cellulare.
Erano altri tempi, e diverso era lo spirito del tempo. Quando nel 1771 il granduca Pietro Leopoldo acquistò Palazzo Torrigiani, soffiava il vento dell’Ovest. Prima ancora della rivoluzione, in Italia cominciava a penetrare dalla Francia lo spirito dell’illuminismo. Proprio in Toscana erano uscite le prime traduzioni dell’Encyclopédie di d’Alembert. L’idea di accogliere gli infiniti aspetti della natura in un plastico dizionario del sapere fu all’origine del museo, le cui collezioni con l’andare degli anni sono state in parte destinate ad altri poli espositivi, ma che al momento della sua costituzione presentava ambizioni enciclopediche. Quando fu inaugurata, nel 1775, la Specola conteneva nelle sue sale una grande summa della scienza occidentale: dalla zoologia all’anatomia, dalla litologia alla paleontologia, dalla fisica all’astronomia. E proprio al grande cannocchiale che il granduca installò nel torrino il museo deve il nome con cui è comunemente conosciuto. Specola, infatti, deriva dal latino speculum: specchi, quindi osservatorio. E i granduchi lorenesi rimasero gelosi cultori della tradizione galileiana anche nell’Ottocento, quando in occasione del III congresso degli scienziati italiani Leopoldo II inaugurò la neoclassica Tribuna dedicata all’autore del Sidereus Nuncius.
L’artefice del Reale Museo di Fisica e Storia naturale fu però Felice Fontana, lo scienziato scelto da Pietro Leopoldo per il suo allestimento. Studioso di aperture internazionali, docente di logica a Pisa e fisico di corte, massone affiliato da Voltaire alla parigina loggia «Le nove muse», Fontana si era occupato un po’ di tutto, dal veleno della vipera agli strumenti per misurare la salubrità dell’aria. Era la persona giusta per ordinare un museo come la Specola, che nelle sue sale e nelle sue teche intendeva classificare l’intero scibile umano.
La classificazione poteva risultare un po’ macabra. A parte gli scheletri e gli esemplari impagliati delle più diverse specie, dall’ippopotamo di Boboli al capodoglio livornese, il museo ospitava le cere anatomiche, prodotto di una laboriosa lavorazione. Lo «spazzino» del museo prelevava le salme a Santa Maria Nuova per consegnarle ad artigiani che li sezionavano e approntavano dei modelli in cera, utili a studiosi e studenti di medicina, cui in questo modo era risparmiato l’imbarazzo di procurarsi per vie traverse i cadaveri. Ad arricchire questo piccolo museo dell’orrore concorse l’acquisizione di una preesistente collezione di «cere della peste» opera di un grande ceroplasta che aveva lavorato ai tempi dei Medici: Gaetano Giulio Zummo, cui il granduca Cosimo III aveva commissionato una serie di riproduzioni. Zummo indulse nella sua opera al gusto macabro tipico della crisi della coscienza europea fra XVII e XVIII secolo; eppure quelle rappresentazioni, realizzate fra il 1691 e il 1694, restano una preziosa documentazione.
Molta acqua è passata sotto i ponti, e anche sopra di essi, perché l’Alluvione non ha risparmiato il museo di via Romana. Molte collezioni sono state destinate ad altri spazi e della Specola non si può più dire, come sosteneva il Fontana, che abbraccia «tutto ciò che di più bello, più utile, più ingegnoso hanno saputo gli uomini ritrovare o immaginare di grande». Però, se non è più un museo della scienza, resta uno straordinario museo di storia della scienza. I suoi animali impagliati, i suoi scheletri, le sue cere anatomiche testimoniano oggi come due secoli fa il grande sforzo dell’uomo per conoscere la natura e, attraverso la natura, se stesso.
L’artefice Il primo direttore Fontana disse: qui c’è tutto ciò che di più bello e più ingegnoso gli uomini hanno saputo ritrovare o immaginare di grande