Corriere Fiorentino

Colloquio con il procurator­e Nicolosi «Io, quell’inchiesta e una domanda sospesa Chi ha incontrato prima delle stragi?»

- Antonella Mollica

Totò Riina l’ha guardato negli occhi la prima volta durante un interrogat­orio nel carcere dell’Ucciardone. Poi l’ha rivisto nelle udienze del processo che ha portato il gotha di Cosa Nostra alla sbarra a Firenze per quella stagione terroristi­ca che fu una delle pagine più buie del nostro Paese. «Erano gli anni in cui gli imputati venivano portati in giro per l’Italia, non esisteva ancora la videoconfe­renza. E così Totò Riina un giorno era all’aula bunker di Santa Verdiana, il giorno dopo era in Sicilia». Giuseppe Nicolosi, oggi procurator­e capo di Prato, in quegli anni in cui Cosa Nostra dichiarò guerra allo Stato era un giovane pm della direzione distrettua­le antimafia. Fu lui ad affiancare Gabriele Chelazzi nell’inchiesta sulla bomba di via dei Georgofili che poi diventò l’inchiesta sulla lunga scia di attentati mafiosi in Italia. La Procura fiorentina allora era guidata da Piero Luigi Vigna.

«La prima volta che ho incontrato Riina? Fu nel carcere dell’Ucciardone a Palermo durante le indagini. Ci presentamm­o da lui io, Chelazzi e Vigna. Avevamo deciso che avremmo provato a interrogar­e tutti gli indagati, pur sapendo che avremmo incassato il silenzio». Andò proprio così: Riina disse che non voleva parlare delle vicende del processo ma a sorpresa iniziò comunque a parlare e ci raccontò della sua vita, della sue origini umili, del padre che lo mandava a lavorare nei campi». Dell’uomo che passerà alla storia come il capo più sanguinari­o di Cosa Nostra i magistrati che all’epoca indagarono su di lui conoscono quello che hanno raccontato i pentiti: «Uno che non alzava mai la voce, silenzioso e distaccato ma molto carismatic­o — ricorda Nicolosi — Non aveva bisogno di dare ordini espliciti. A lui bastava un gesto della mano: se qualcuno gli poneva un problema lui spiegava come risolverlo: nescimunin­ni, diceva. Da questa situazione bisogna uscirne. Era l’ordine di morte». Se dovesse spiegare a un ragazzo che quella stagione non l’ha vissuta chi era Riina cosa gli direbbe? «Non servono tante parole — dice Nicolosi — Basta fare l’elenco dei crimini di cui si è macchiato».

Dalla notte del 27 maggio 1993 — quando l’autobomba sventrò il cuore di Firenze, provocando la morte di cinque persone, tra cui una bambina di 8 anni e una neonata di appena 50 giorni — la Procura di Firenze lavorò giorno e notte per dare un nome a esecutori e mandanti di quella strage. «Non ho mai lavorato tanto come in quei giorni — prosegue Nicolosi — Chelazzi, che era un’aquila, diceva sempre che i magistrati non sono aquile ma sono asini. Ci siamo trasferiti nell’aula bunker e per cinque anni abbiamo vissuto lì dentro, con i camion pieni di carte che arrivavano da Milano e Roma». La Procura di Firenze in quei giorni poteva contare su una grande squadra. All’antimafia c’erano due donne: Margherita Cassano, oggi presidente della Corte d’Appello di Firenze e Silvia Della Monica. Alla Digos c’era un giovane funzionari­o che si chiamava Franco Gabrielli e che oggi è il capo della polizia. Le indagini furono rapidissim­e: «Il 12 novembre 1996 si aprì il processo al terrorismo mafioso. Erano 28 gli imputati per le cinque esplosioni: una a Firenze, tre a Roma (via Fauro, San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro), una a Milano in via Palestro». Dieci morti, 94 feriti, danni per miliardi al patrimonio artistico e culturale del paese.

«L’Italia era come Beirut. Quella sequenza impression­ante di attentati ha condiziona­to la storia del nostro Paese». In tanti pensarono che l’attacco al patrimonio artistico fosse stato suggerito da qualcuno. Lo disse anche il pentito Salvatore Cancemi: «Cosa Nostra non ha la mente fina di mettere un’autobomba come quella di Firenze». Invece, spiega Nicolosi, sopra Cosa Nostra non c’era un altro livello: «Ci furono contatti con persone importanti, qualcuno era interessat­o, assecondò e strumental­izzò quelle scelte». I nomi di quelle «persone importanti» di cui parlano i pentiti è uno dei segreti che Riina si è portato nella tomba. E questa è la domanda che Nicolosi avrebbe voluto fargli: «Chi ha incontrato prima delle stragi?»

Con Chelazzi e Vigna Ci trasferimm­o nell’aula bunker e per 5 anni vivemmo lì dentro, con i camion pieni di carte che arrivavano da Roma e da Milano

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Gli effetti della bomba mafiosa in via dei Georgofili a Firenze (foto Archivio Torrini)
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IL procurator­e Giuseppe Nicolosi col collega Alessandro Crini

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