L’USURA DEI MEDICI (VISTA DA UN MEDICO)
Con il dibattito sulla Legge di Bilancio 2018, è tornato d’attualità un tema invero ricorrente nell’arena politica: quello delle pensioni. Da circa vent’anni la previdenza sociale è pietra di inciampo per governi di tutti i segni e di tutte le bandiere.
Allo stato attuale, vi sono prospettive a partire dal 2019 per un ulteriore allungamento della vita lavorativa degli italiani, pari a cinque mesi. Si tratta di una scelta ragionata, ma che comunque fa pensare: in tutti i Paesi europei, l’età pensionabile è decisamente più bassa: si va dai 61 anni dei «virtuosi» svedesi, ai 62 della Francia sino ai 65 della Germania. Le eccezioni negative, quasi che si tratti dei soliti «ultimi della classe», sono quelle nostrane (66 anni) e della Grecia (67 anni). Si capisce come ragioni di spending review e di parità del bilancio impongano questo genere di politiche sociali. Il governo, o meglio il governo che verrà (nel 2018) sarà chiamato a definire una categoria non economica, ma qualitativa: quella dei lavori usuranti.
Che cos’è un lavoro usurante? Popolarmente il pensiero corre ai classici scenari del settore secondario: minatori, operai siderurgici e metalmeccanici, addetti al trattamento delle pelli, operai del settore chimico e della raffinazione. Ma anche a realtà lavorative — che esistono anche nel settore sanitario — che possono sottoporre un individuo a sollecitazioni tali da compromettere l’adattamento psicosociale e, in ultima analisi, inficiarne lo stato di salute. Si prospetta quindi uno scontro a vari livelli, sia fra sindacati, che fra occupazioni, che all’interno dello stesso settore, per l’inclusione ( o l’ esclusione) dalle« categorie usuranti». Quali sarebbero, in questo caso, le linee guida da seguire? È possibile individuare una categoria di occupazioni, nella maniera più efficace ed equa possibile?
In questo scenario, come psichiatra ed anche come parte in causa, è mia intenzione soffermarmi sulla criticità, spesso sottovalutata, del lavoro del medico. Questa categoria, spesso considerata dai più privilegiata, talora anche accusata di richiedere compensi elevati a fronte di uno scarso investimento lavorativo, è in realtà più a rischio di quanto si creda.
Non mi riferirò soltanto alle realtà di indiscussa criticità, come ad esempio quella dei medici del pronto soccorso, costretti a turni massacranti, dove il dovuto riposo tra notti e giorni diviene talora impossibile, e chiamati continuamente a gestire situazioni altamente traumatiche anche per l’operatore stesso (pensiamo ad e s empio ai corpi mutilati delle vittime di incidenti stradali, che possono anche andare incontro a un decesso proprio mentre il medico presta le sue cure). In realtà, anche il medico che svolge un lavoro apparentemente più tranquillo (in cui, va ricordato, resta la presenza dei turni notturni), senza il carico della gestione di urgenze e prevalentemente ambulatoriale, è comunque esposto a fattori stressanti. Nella vita di ogni medico capitano, ogni giorno, casi complessi, spesso situazioni di criticità e disagio, ed egli è chiamato ad assumersi la responsabilità di essere il punto di riferimento, di ascoltare ed «assorbire» le problematiche del soggetto (che andi dranno trattate prendendo in considerazione e in carico l’individuo nella sua interezza, da gestire nell’ambito della situazione sociale in cui è collocato). Spesso questo fa sì che, per il medico, anche il concetto di giorno di riposo resti relativo: non si tratta di un tipo di mansione che si può «lasciare in ufficio» e riprendere al rientro del lunedì mattina, poiché come professionista e come essere umano egli si sentirà in dovere di rispondere alle eventuali richieste di aiuto improvvise da parte dei pazienti per via telefonica o informatica, se non, nei casi più gravi, anche di persona. In tutti questi contesti il medico sa che sulle sue spalle grava un carico pesante: poiché dalle sue scelte terapeutiche (che mai sono semplici o riducibili a tabelle giacché ogni individuo è un universo a sé) dipenderà il benessere o l’aggravamento dell’individuo, talora la sua vita o la sua morte. A questo, naturalmente, vanno ad aggiungersi le responsabilità legali connesse alla professione: e qui potremmo aprire un capitolo su come il moltiplicarsi delle denunce ( talora legittime, talora futili e infondate o pretestuose) stia costringendo molti medici a rifugiarsi nella cosiddetta «medicina difensiva», che non va certo a vantaggio del malato.
Oltre all’impatto traumatico dell’esposizione continua a corpi mutilati o a situazioni di morte, magari esacerbato dalla frustrazione del fallimento, anche traumi meno gravi ma ripetuti, come quelli dovuti al farsi quotidianamente carico delle situazioni di sofferenza degli altri individui, compreso l’essere chiamati a gestire (e a comunicare) diagnosi a prognosi infausta (ad esempio di malattia oncologica) al paziente e ai familiari, possono dar luogo a sintomi post-traumatici da stress. Anzi, secondo i recenti studi sul Ptsd (disturbo da stress post traumatico) complesso, traumi di entità lieve ripetuti nel tempo possono dar luogo a forme croniche più subdole, magari senza i sintomi classici e più eclatanti quali l’iperarousal o i flashback ed i ricordi intrusivi, ma con un’alta frequenza di comportamenti maladattativi, quali agiti impulsivi o uso di sostanze, sintomi di ottundimento affettivo, pensieri autolesivi, idee negative e auto colpevolizzanti. Qualcosa, insomma, che in parte spiega, ma che va anche oltre, quella che in passato veniva descritta come sindrome da «burnout», col suo corteo di deterioramento emozionale e funzionale nell’ambito lavorativo.
Oltre all’impatto dell’essere esposti a corpi mutilati o a situazioni di morte, anche traumi meno gravi ma ripetuti possono portare a sintomi post traumatici da stress